Nella modellistica finanziaria, come noto, una delle variabili più dibattute è il tasso risk free. In realtà, infatti, nulla è veramente risk free. Tuttavia, solitamente, si tende ad identificare il tasso risk free con quello di titoli di stato sicuri (tedeschi, per l’area euro, americani se ragioniamo in dollari). Rimane tuttavia da valutare se si debba considerare il tasso a breve o quello a medio lungo termine.

In generale è comunque lecito affermare che il rendimento del decennale americano (10yrs US TSY) non è solo il risk free asset per gli Stati Uniti, ma è anche il benchmark di riferimento per tutte le asset class a livello globale, in quanto la rilevanza dell’economia americana a livello internazionale, insieme alla potenza della Fed (the world central bank) influiscono inevitabilmente sui prezzi delle principali asset class a livello globale.

Per questo motivo il 10y US TSY è da considerarsi il “global discount factor”, cioè il fattore di sconto globale (a cui aggiungere il risk premium) da utilizzare nella attualizzazione dei flussi di cassa (cedole o altri cash flow, quali dividendi, a seconda che si tratti di bond o azioni) delle principali asset class al fine di determinarne il valore.

Per essere più precisi, è il suo tasso reale implicito che deve essere usato come fattore di sconto: più è alto, più è basso il valore attuale dei flussi dell’asset che si vuole valutare.

Ma come funziona il processo?

Nei momenti di crisi economica la Fed utilizza solitamente la leva della riduzione dei tassi di interesse e, così facendo, agisce sul tasso reale implicito nel 10y TSY abbassandolo: detto in altri termini, la banca comunica la futura politica monetaria e il mercato la recepisce modificando la serie futura dei tassi al ribasso.

Il processo dà fiato ai prezzi delle attività (bond e equity salgono) e stimola la crescita economica.

Viceversa, quando l’inflazione va oltre i target fissati, il processo che ne scaturisce è inverso: la Fed comunica le nuove intenzioni di politica monetaria e il mercato le recepisce modificando al rialzo la serie futura dei tassi. Questo porta al rialzo dei tassi reali, aumenta il fattore di sconto con cui si prezzano le attività finanziarie e ne riduce il loro valore.

Alcuni asset soffrono di più, altri di meno: per questo parliamo di long e short duration asset.

Per convenienza riportiamo di seguito una generica formula del valore di mercato di un asset.

Il PV (Present Value) rappresenta il valore di mercato ed è funzione di tutte le C (cedole di un bond o cash flow di un’azione) scontate nel tempo al tasso di riferimento r (discount factor). A parità di r, più è alto C più è alto il PV, ovvero il valore di mercato dell’asset che stiamo analizzando. Più è basso C e più un movimento al rialzo di r produce un ribasso nel valore di mercato dell’asset class (più alta sarà cioè la sensibilità di quell’asset class al movimento del tasso reale). Si parla in questo caso di “long duration asset”.

Viceversa, per un asset con C più elevati, un pari movimento al rialzo di r ha un impatto minore sul prezzo di quell’asset: parliamo di “short duration asset”.

Come noto ci sono long e short duration asset nel settore obbligazionari bond (governativi e corporate): i titoli a reddito fisso possono infatti essere caratterizzati da duration più o meno alte.

Ma la stessa cosa succede anche nell’equity: c’è infatti una differenza di sensibilità non solo tra gli indici azionari a livello globale, ma anche a livello settoriale. Per esempio, nell’asset class azioni il settore tecnologico è una long duration asset, mentre il settore energy e i basic materials sono una short duration asset

 

In una fase come quella che stiamo vivendo, con i tassi reali in forte rialzo, aver avuto più short duration asset in portafoglio rispetto a long duration asset avrebbe di certo cambiato la performance.

 

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