È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora. (Winston Churchill)

 

La citazione è dotta. Eppure capita molto spesso di cadere nel tranello del qualunquismo. Del tipo: “si stava meglio quanto si stava peggio”. Od ancora: “qui ci vorrebbe un governo forte, che quello che decide si fa e basta!

La democrazia, lo sappiamo, è farraginosa, specie in un paese come il nostro dominato da cavilli, contraddizioni, lungaggini, intoppi. E dove, alla fine, comunque decide la sovraintendenza ai beni culturali, anche quando si tratta di creare un parco solare nel mezzo della sterpaglia della maremma… che magari c’è sotto una necropoli etrusca da conservare (anche se non verrà mai dissotterrata).

Quante volte ho sentito, anche da esperti del settore, magnificare le potenzialità di pianificazione e progettazione di uno Xi Jinping o di un Putin: quelli rimarranno in carica per anni, altro che i nostri governucci.

Ma poi, a ben ragionarci, uno si accorge di un fatto tanto semplice quanto potente: i dittatori dirigisti del nuovo millennio prima o poi dovranno mollare. Per morte naturale, per golpe militare, per attentato, o semplicemente per stanchezza della popolazione o per i tempi che cambiano.

Ed invece, al di là dell’Atlantico, nella patria madre di tutte le rivoluzioni (al riguardo si veda Israel, Il grande incendio), piena di contraddizioni e di colpe, ecco il miracolo. Ogni quattro anni, il martedì immediatamente successivo al primo lunedì del mese di novembre, viene eletto il Presidente. Che sia repubblicano o democratico, bianco o nero, uomo o donna (no, questo non è ancora capitato nonostante la Clinton) un Presidente c’è. Altro che i dittatori euro-asiatici.

E cosa capita l’anno delle elezioni?

A parte il bailamme politico, l’allegorica e colorata campagna elettorale, le convention e le usuali e vicendevoli pugnalate alle spalle da parte dei contendenti alla poltrona massima, il mercato azionario …. sale.

Eh sì, perché come mostra la tabella sottostante, tranne in rare eccezioni la performance (total return) dello SP500 (a partire dal 1952) nell’anno elettorale è stata ampiamente positiva. La media è del 10,71% (più precisamente 12,40% negli anni di vittoria di un repubblicano e 8,60% quando a vincere è un democratico). E le eccezioni negative riguardano annate straordinarie: il 2000, anno dello scoppio della bolla dot.com e il 2008 della Grande Crisi Finanziaria post Lehman.

Salvo eventi eccezionali, e nonostante le tensioni geopolitiche (ma chi si ricorda più del conflitto in Ucraina) il 2023 del mercato azionario americano è avviato verso una chiusura ampiamente positiva. Visti i precedenti indicati in tabella, il 2024 potrebbe riservare ulteriori buone sorprese.