Gestione passiva o gestione attiva?
E’ questo l’eterno dilemma che sgomenta i pensieri di accademici, studiosi, practitioners ed investitori finali. Non vogliamo però qui dibattere sul “chi ha ragione”, ovvero se sia meglio, nel medio-lungo termine, semplicemente mettersi sul treno dei mercati prediligendo strumenti di investimento a beta 1, oppure cercare quel gestore che sia così bravo da darci in maniera sistematica un supplemento di performance (alpha) grazie alle sue analisi/intuizioni, o semplicemente adoperando un algoritmo matematico per la scelta dei titoli (strategie smart beta).
Al riguardo, autori più esperti e rinomati di noi hanno già dato. Basti allora ricordare che, dal punto di vista teorico, la scelta tra i due approcci di gestione dovrebbe essere basata sulla propria convinzione in merito all’efficienza dei mercati in cui si va ad investire.
In termini semplici: se penso che il mercato su cui investo sia molto efficiente (i prezzi rappresentano in ogni istante tutta l’informazione disponibile e si adeguano in maniera rapida di fronte a nuova formazione), allora dovrei prediligere la gestione passiva; se ritengo che sul mercato vi siano quotidianamente delle anomalie di prezzo (strumenti sotto-sovra quotati rispetto al loro fair value) che possono essere sfruttate da bravi gestori, allora dovrei propendere per la gestione attiva, nonostante il maggior costo e la non secondaria difficoltà nel capire chi sono veramente i bravi gestori.
Non si dimentichi, tuttavia, che la scelta tra gestione attiva e gestione passiva potrebbe essere influenzata da nostri bias comportamentali. Una interessante considerazione al riguardo è quella proposta da Heaton e Pennington G. [CrossRef]. Gli autori evidenziano come in molte aree della nostra vita il lavoro duro genera risultati migliori rispetto alla pigrizia: un imprenditore che si impegna maggiormente nel rispondere alle esigenze dei propri clienti aumenterà il suo business; uno studente che si impegna di più ottiene migliori voti; se voglio correre una maratona è scontato che mi debba allenare tanto. In ben poche occasioni, invece, fare poco o niente è la strategia dominante.
Ecco allora che la nostra scelta tra gestori a beta 1 e quelli che dichiarano di volere fare alpha positivo viene influenzata da un tipico errore comportamentale, ossia quella conjunction fallacy già ben documentata da Tversky e Kahneman (1983) nel famoso “Linda problem”[1]. In termini semplici, siccome siamo convinti che il lavoro duro paga, riteniamo più probabile che un gestore che si impegna per capire quali siano le aziende migliori in cui investire sia in grado di ottenere risultati migliori[2].
Detto questo, però, l’intento del presente articolo è quello di fornire, attraverso i dati forniti da Borsa Italiana, uno spaccato degli Exchange Traded Funds (ETF) quotati sull’ETFPlus. Ciò al fine di valutare, in maniera critica ma non scettica, quanti e quali strumenti a gestione passiva sono a disposizione degli investitori privati. Andiamo a vedere.
I numeri
Così come evidenziato in recente webinar, peraltro disponibile on demand per chi non avesse potuto partecipare (https://www.contemplata.it/webinarondemand/), sulla base dei dati scaricabili dal sito Borsa Italiana risulta che gli ETF quotati, salvo delisting dell’ultimo momento, ammontano a 1.076. Di questi 677 sono di tipo azionario (esclusi gli azionari short e quelli a leva), mentre 294 quelli legati al comparto obbligazionario tradizionale (titoli di stato e corporate esclusi short e a leva). 105, infine, gli ETF compresi nelle restanti categorie, ovvero aventi come indici sottostanti: azionari e obbligazionari short, azionari e obbligazionari leveraged long e short, indici di credito, commodities[3], indici di inflazione, liquidità, multiasset, real estate.
Entrando più specificamente nella categoria degli azionari, quella più numerosa e tradizionale, 95 strumenti sono riferiti ai mercati e ai singoli paesi europei (Italia compresa), mentre 154 si basano su benchmark del Nord America, Area Pacifico, e Mondo. Altri 101 prodotti sono quelli relativi ai paesi emergenti nelle diverse aree del mondo. E fin qui, siamo ancora nell’ambito dei tradizionali ETF di prima generazione.
Ben 247 prodotti, invece, rientrano nelle categorie Style e Tematici. Tra questi ritroviamo, da un lato, gli ormai classici ETF su azioni small cap, piuttosto che su azioni value e growth; dall’altro, invece, la pletora di strumenti basati su strategie smart beta e su megatrend.
Ricordiamo che le strategie smart beta sono quelle che prevedono la costruzione di un portafoglio estrapolando da un benchmark di riferimento (MSCI world, SP500, Eurostoxx 600) le imprese caratterizzate da specifici parametri di bilancio (dividend yield, fatturato, crescita delle vendite ecc..) ovvero di mercato (strategie momentum o low volatility). Il tutto attraverso una regola meccanica basata su dati passati. Esempio semplice: inserisco ogni anno in portafoglio le 30 azioni dell’indice Eurostoxx 50 che l’anno precedente hanno registrato il miglior rapporto dividendo su prezzo (D/P o dividend yield) e ogni anno ribilancio il mio portafoglio seguendo la stessa regola meccanica.
Si noti comunque che, anche in questo caso, l’ETF è sempre uno strumento a gestione passiva: non è infatti l’ETF che modifica il suo portafoglio; l’ETF segue comunque un benchmark… ma è proprio il benchmark che modifica la sua composizione nel corso del tempo (vedi BOX sottostante).
Per quanto attiene agli ETF tematici, invece, è lecito affermare che tali prodotti fanno il verso ai ben più noti fondi tematici a gestione attiva. Ma mentre in questi ultimi è la società di gestione che cerca sul mercato le aziende che, a suo avviso, sapranno meglio sfruttare un trend nel medio lungo termine (invecchiamento della popolazione, sviluppo tecnologico, urbanizzazione, clean energy ecc..), l’ETF replica un indice tematico creato da una società terza. L’ETF iShares Global Clean Energy, ad esempio, segue l’indice S&P Global Clean Energy Index, creato ovviamente dalla S&P.
Ancora più interessanti, a nostro avviso, sono però gli ultimi arrivati sul mercato, ossia gli ETFA, dove A sta per Attivi. Un ossimoro direte voi. Come può infatti un ETF essere attivo se, per antonomasia, parliamo di strumenti a gestione passiva? Invece è proprio così: un ETF attivo è un ETF in cui le risorse finanziare raccolte vengono gestite attivamente da una società di investimento secondo una specifica strategia.
Di questi ETF se ne contano al momento 33, e le case di investimento sottostanti sono del calibro di PIMCO, JPMorgan, Vanguard, Invesco. Nel BOX sottostante un esempio.
Tradotto in termini semplici: cos’è l’ETF PIMCO Euro Short Maturity descritto nel BOX? Un fondo di PIMCO travestito da ETF, e venduto saltando i tradizionali canali distributivi, ossia banche e reti di consulenza. Come diceva Alberto Colombo, storico Preside del Liceo Classico Daniele Crespi di Busto Arsizio (da me frequentato in adolescenza): “Qui habet aures audiendi ,audiat”
Infine, e per non farci mancare niente, vuoi che gli ETF non siano anche loro sostenibili? (e chi non lo è oggigiorno?) Ben 137 prodotti, ci dice la Borsa, presentano infatti un Sustainable Screening
Alcune criticità degli ETF
Gli ETF sono rinomati per essere strumenti poco costosi. Nel senso che la commissione di gestione applicata e, in generale, i costi imputati al fondo sono relativamente bassi rispetto ai prodotti tradizionali di risparmio gestito. Ma è proprio vero?
Anche in questo caso possiamo rifarci ai dati forniti da Borsa Italiana. Il TER (Total Expense Ratio) medio di tutti gli ETF quotati è di 0,313%. Una cifra a prima vista bassa. Ma si tenga conto che il range dei TER va da un minimo dello 0,04% ad un massimo del 1.10%. Tra quelli più costosi diversi ETF azionari Paesi Emergenti, ma anche, e stranamente, un paio di ETF obbligazionario corporate Euro (TER 0,95%).
Ora, a parte il TER, non si deve dimenticare che gli ETF vengono comprati dagli investitori retail sul mercato secondario. E qui si scontano due ulteriori costi poco attenzionati dagli investitori stessi: la commissione di trading e lo spread denaro-lettera.
La commissione di trading dipende ovviamente dalla piattaforma su cui viene eseguito l’ordine; e potrebbe essere più o meno incidente in dipendenza del volume dell’ordine stesso. Lo spread denaro-lettera, invece, è una caratteristica di mercato.
Borsa Italiana stessa rammenta che: “Anche gli ETF, come qualsiasi altro titolo quotato in Borsa, presentano una differenza tra prezzi denaro (in acquisto) e prezzi lettera (in vendita), meglio conosciuta con il termine di bid-ask spread. Lo spread denaro-lettera si definisce quindi come la differenza tra questi due prezzi e rappresenta in ultima istanza un costo implicito per l’investitore”.
Tradotto in termini semplici: ogni volta che si compra un ETF si paga una sorta di commissione di ingresso; e ogni volta che si vende si paga una commissione di uscita implicita
Ovviamente Borsa Italiana ci ricorda anche che: “Ad ogni modo, al fine di garantire la massima liquidità è richiesto che per ogni ETF sia presente un operatore specialista che si è obbligato ad esporre in via continuativa ordini in denaro e lettera per una quantità e uno spread massimo definiti da Borsa Italiana”
Bene, allora non ci dovrebbero essere problemi in quanto a liquidità di mercato. Vediamo sul punto i numeri indicati dalla Borsa stessa nelle due figure sottostanti.
Spread medi sul mercato ETFplus
Fonte: Borsa Italiana Osservatorio ETFplus primo trimestre 2020
SPREAD: è il costo implicito che sosterrebbe un investitore qualora acquistasse e vendesse nel medesimo istante uno strumento finanziario alle migliori proposte presenti sul book di negoziazione in quell’istante (è calcolato come la differenza tra il miglior prezzo in acquisto e quello in vendita, divisi per la loro media semplice).
Come è facile osservare, lo spread dipende dal tipo di ETF, o meglio dall’indice sottostante. Più l’indice sottostante è liquido, più lo spread diminuisce. Più lo famo strano più lo spread aumenta. Inoltre, è visibile come nel mese di Marzo (ovvero in momenti di volatilità dei mercati) gli spread tendono ad allargarsi. Mi dicono anche – ma relata refero – che in momenti di forte oscillazioni dei prezzi gli specialisti sono soliti scendere al bar a bersi un caffè.
Ad ogni modo, gli spread medi di mercato sembrano relativamente contenuti. Tuttavia, sempre grazie alla trasparenza di Borsa Italiana, possiamo vedere le statistiche di dettaglio degli spread relativi ai singoli strumenti. Nel mese di Maggio, per alcuni strumenti si registrano spread ben superiori all’1% (se non al 2%).
Facciamo allora un esempio reale per capire la faccenda. L’ISIN è LU1199448058. E’ il 30 di giugno, mattina. Lo spread denaro-lettera sull’ETF si presenta così: Prezzo Denaro 90,75 – Prezzo lettera 92,11. Ipotizziamo di acquistare 100 quote a 92,11. Tralasciando la commissione di trading paghiamo 9.211 euro. Immaginiamo ora di accorgerci subito di aver effettuato un ordine sbagliato. In realtà volevamo comprare un altro ETF. Rivendiamo immediatamente le quote a 90.75 ed incassiamo (sempre tralasciando la commissione di trading) 9.075 euro. Totale: la perdita sarebbe di 136 euro, cioè il 1,48% dell’investito (9.211). Avete compreso il costo?
Ora, qualcuno potrebbe anche dire che non tutti i giorni un investitore si sbaglia ad inserire un ordine. Ma il concetto non cambia. Se anche compro oggi quell’ETF e lo rivendo tra un anno, implicitamente pago una commissione sia quando compro che quando vendo, la quale rappresenta ad evidenza il guadagno del market maker.
Anche in questo caso, tuttavia, è giusto osservare che l’incidenza di tale commissione di ingresso e di uscita, implicita, dipende dalla logica di investimento perseguita da chi effettua l’operazione: se compro un ETF poco liquido e lo tengo per 10 anni, è chiaro che la commissione implicita di ingresso che pago viene diluita su un arco temporale molto lungo e avrà poca incidenza sulla mia performance. Se compro e vendo ogni mese, o ogni settimana, lo spread denaro-lettera diventa un fattore fondamentale
Cui prodest
A chi servono in definitiva gli oltre 1.000 ETF quotati in Borsa? Ecco alcune risposte possibili.
- Agli investitori. In linea di massima sì, come soluzione alternativa e poco costosa rispetto ad altri investimenti tradizionali (fondi e polizze). Ma attenzione ai costi impliciti e alla complessità operativa di alcuni ETF, elementi non sempre adeguatamente concepiti dagli investitori retail (soprattutto quando gli ETF presentano un effetto leva)
- Ai gestori attivi. Sembrerà paradossale, ma è ormai pratica comune da parte dei gestori attivi l’utilizzo di ETF per prendere velocemente posizione (o disfarla) su determinate asset class. Il gestore usa cioè in maniera attiva uno strumento passivo. Stratagemmi della finanza!
- Alle case di investimento. Sicuramente sì. Più ETF sono quotati e comprati più ci guadagnano. Ed in particolare gli ETFA potrebbero divenire una interessante strategia distributiva anche per le case non normalmente operanti nel settore ETF
- Ai market maker operanti sul mercato. Sicuramente sì… è il loro mestiere. Più ci sono scambi su ETF più ci guadagnano
- Alla Borsa Italiana. Sicuramente sì. Più ETF vengono quotati, e più scambi vi sono,più la Borsa ci guadagna
E ai consulenti finanziari? “Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.” (Sun Tzu. L’arte della guerra)
References
- Heaton, J.B. and Pennington, Ginger, How Active Management Survives (March 14, 2019). Financial Planning Review, forthcoming 2019.. Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3193640 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3193640
[1] Alla svelta. Nell’esperimento di Tversky e Kahneman veniva presentato il profilo di una ipotetica Linda come segue: Linda ha 31 anni, è single, molto intelligente e sicura di sé. Si è laureata in filosofia. Da studente era fortemente impegnata per la giustizia sociale e contro la discriminazione, e partecipava a dimostrazioni antinucleari. Veniva quindi chiesto ai partecipanti all’esperimento: Che cosa è più probabile? a) Linda è una impiegata bancaria; b) Linda è una impiegata bancaria attiva in un movimento femminista. Da un punto di vista probabilistico, la seconda opzione è chiaramente meno probabile della prima, in quanto contiene due eventi (Linda è una impiegata bancaria e Linda è attiva in un movimento femminista) che hanno meno probabilità di verificarsi del singolo evento della opzione a) (Linda è una impiegata bancaria). Tuttavia una percentuale non minimale di rispondenti sceglie l’opzione b) tratta in inganno dalla descrizione del profilo di Linda.
[2] Gli autori, riprendendo la logica del Linda problem, propongo le due seguenti opzioni: Il fondo ABC investe in azioni quotate sulla Borsa Americana. Che cosa è più probabile? a) Il fondo ABC produrrà quest’anno un buon rendimento per i suoi partecipanti; b) Il fondo ABC produrrà quest’anno un buon rendimento per i suoi partecipanti e il fondo ABC impiega analisti per gli investimenti che lavorano duro per identificare le migliori azioni in cui investire. Ben il 62,8% ritiene che sia corretta l’opzione b).
[3] Ricordiamo che gli ETF su commodities replicano indici di commodities e non la singola commodity come avviene per gli ETC.