Le informazioni interessanti sono spesso quelle che passano inosservate: specie se scritte in inglese. Oppure vengono travisate o velocemente commentate, senza essere adeguatamente analizzate. O ancora, scatenano una ridda di commenti e controdeduzioni, a volte speciose, spesso capziose.
Ci riferiamo in particolare al report prodotto da Mediobanca Securities in merito all’Italexit (19 gennaio 2017), che ha provato a stimare eventuali costi e benefici di una ridenominazione del debito pubblico italiano, dovesse il nostro Paese uscire dall’euro e tornare alla lira. Report commentato e criticato sul web da vari esperti su siti specializzati (o presunti tali). Al riguardo, ci sembra opportuno fare qualche considerazione il più possibile neutrale, e sicuramente scevra da influenze populistiche o politiche.
Partiamo con l’osservare che il report viene prodotto da una banca italiana: non si può quindi parlare dei soliti attacchi della speculazione internazionale. Certamente qualcuno potrebbe obiettare che, comunque, Mediobanca ha dei potenziali conflitti di interesse nel creare certi di tipi di report; può anche essere, ma a parte le ipotesi di base del ragionamento (criticabili, come diremo oltre) i numeri e le condizioni del debito e del deficit pubblico italiano sono quelle ufficiali.
Il report inizia con un’analisi della (non) crescita dell’economia italiana che, secondo Mediobanca, è fortemente correlata alla nuova valuta introdotta nel 1999[1]: in termini reali, infatti, la crescita del PIL italiano nel periodo 1999-2015 è stata praticamente piatta; e tra il 2008 e il 2016 si è addirittura contratta del 7%. Non è poi un segreto che la situazione fiscale italiana sia negativamente influenzata dall’alto debito accumulato nel tempo, nonostante i recenti benefici del QE di Draghi (la BCE già detiene ben più di 200 miliardi di euro di debito italiano, ed è quindi facile prevedere le difficoltà che potranno sorgere nel momento in cui il QE sarà chiuso). Su questo aspetto, tuttavia, risulta interessante la disamina dell’avanzo primario dell’Italia e del peso degli interessi sul debito, così come illustrato nella figura sottostante, rispetto ad altri paesi europei.
Figura n. 1. Avanzo primario medio e costo medio degli interessi (% rispetto al PIL)
Fonte: Report Mediobanca
L’Italia, infatti, è riuscita a mantenere un avanzo primario elevato nel corso del tempo: ricordiamo che l’avanzo primario è la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi. Ma poi, l’alto peso degli interessi sull’immenso debito accumulato negli anni ha creato una serie continua di deficit (figura n. 2). Traduciamo in maniera semplice per i non addetti ai lavori: lo Stato incassa tasse e altri contributi (entrate) maggiori di quello che spende (uscite per spesa pubblica e servizi vari ai cittadini); dovendo però pagare gli interessi sul debito va in rosso (deficit) e il debito si accumula. Quindi: meno servizi, più tasse, ma debito in aumento (anche perché il PIL è fermo).
Figura n. 2. Deficit/PIL
Fonte: Report Mediobanca
Non sarebbe allora il caso di agire sul debito, come molti ipotizzano, per ristabilire un certo equilibrio? Proprio a questa domanda cerca di rispondere il report di Mediobanca. Ma in che modo si potrebbe agire? O attraverso una riprofilazione del debito (si allungano le scadenze e si tagliano le cedole dei titoli di Stato, ad esempio), o si esce dall’euro e si ridenomina il debito in lire (Italexit), ovvero una combinazione delle due (la prima essendo probabilmente più fattibile e meno traumatica).
In particolare, è a tutti noto che un facile populismo indica nell’uscita dall’euro la chiave per recuperare produttività (svalutando la nuova lira), e per ripianare più facilmente il debito (grazie alla ritrovata sovranità monetaria si potrebbero stampare lire ad libitum). Per meglio ragionare su tali ipotesi, tuttavia, occorre riflettere primariamente sulle seguenti considerazioni:
- uno dei primi aspetti da inquadrare è la potenziale svalutazione della nuova lira fuoriuscente dall’euro: non si sa bene per quali ragioni, ma sempre di più si consolida tra gli esperti un livello di circa il 30%. Mediobanca, che proprio questa percentuale utilizza nella sua analisi, la giustifica in formule come: 2 x il gap di inflazione cumulato tra Italia e Germania dall’introduzione dell’euro. Ora, la svalutazione della lira potrebbe in realtà essere molto più ampia nel breve-medio termine, per poi ridursi con il tempo. Dopo il referendum sulla Brexit, ad esempio, la sterlina è arrivata a perdere tra il 15% e il 20% nei confronti dell’euro; e si tratta di un paese che non faceva parte dell’euro!
- Ma la domanda da porsi, a nostro avviso, è la seguente: uscita l’Italia dall’euro ci sarebbe ancora l’euro? Lo studio di Mediobanca, ad esempio, si basa sull’ipotesi che, uscita l’Italia dall’euro, parte del suo debito dovrebbe essere ripagato comunque in euro, permanendo tale valuta in vita: ma dovesse invece implodere totalmente l’area euro, allora i calcoli sul costo della ridenominazione del debito domestico di Mediobanca sarebbero inutilizzabili[2].
- Per quanto attiene al possibile utilizzo della svalutazione della nuova lira per recuperare produttività, rimangono a nostro avviso forti dubbi: svalutando del 30%, i nostri prodotti sarebbero più competitivi del 30%? Riteniamo di no. Gli imprenditori sanno infatti bene che molte parti dei processi produttivi sono ormai delocalizzate: anche ciò che viene marchiato made in Italy non è sempre e totalmente prodotto in Italia. Sulla parte della produzione effettuata all’estero, quindi, una svalutazione della nuova lira andrebbe ad aumentare i costi di produzione. E se saltasse completamente l’euro, la nostra svalutazione competitiva sarebbe ben facilmente replicabile anche da altri stati concorrenti (Spagna, Portogallo, la stessa Francia).
- Un altro aspetto che viene spesso travisato attiene alla possibilità di far pagare agli stranieri (specie alla famigerata speculazione internazionale) i costi della ristrutturazione e/o ridenominazione del debito. Come ben evidenziato da Mediobanca, tuttavia, la “domestification” del debito pubblico italiano iniziata nel 2011 ha fatto sì che oggi quasi due terzi del debito sia detenuto da compatrioti, in special modo da istituzioni finanziarie (banche e assicurazioni). Ciò potrebbe in teoria rendere più semplice la ridenominazione in lire del debito, ma provocherebbe un depauperamento della ricchezza nazionale (non giriamoci intorno: se mi ripagano i titoli di stato con un nuova lira svalutata in definitiva ci perdo). Inoltre, ciò potrebbe significare il dissesto di molte banche: come ho provato a spiegare in una trasmissione televisiva già nel novembre del 2014 (Funamboli, https://www.youtube.com/watch?v=JRiRmt50ebk) uscire dall’euro non è un processo immediato (la Brexit durerà anni) e, nel frattempo, il prezzo dei nostri titoli di Stato crollerebbe costringendo le banche a svalutare tremendamente i propri portafogli titoli.
- In merito alla detenzione di titoli di Stato da parte delle banche italiane, il report di Mediobanca evidenzia peraltro che, nei prossimi anni, la potenziale introduzione di regole di vigilanza più stringenti che limitano la dimensione dei titoli governativi nei portafogli renderebbe ben più problematico per lo Stato rifinanziare il debito
Torniamo ora ai calcoli di Mediobanca. Le ipotesi di partenza sono le seguenti. In uno scenario di ridenominazione del debito, il Governo non potrebbe comunque ignorare la necessità di preservarsi l’accesso ai mercati finanziari: un conto è ridenominare il debito, un conto è non essere più in grado di emettere nuovi titoli per molto tempo, ovvero essere costretti a pagare tassi di interessi eccessivamente esosi. Su tali basi, dice Mediobanca, è abbastanza probabile che il Governo deciderebbe di agire nel seguente modo:
- si eviterebbe di intraprendere cause legali con i detentori di bond assistiti dalle clausole Cacs; il possesso di una fetta sufficiente delle emissione aventi tali clausole bloccherebbe di fatto la ridenominazione. Si tratta di un passaggio molto interessante: le CACs, clausole di azione collettiva, introdotte a livello europeo proprio per meglio gestire eventuali ristrutturazioni di debiti pubblici, e che sono state spesso presentate dalla stampa specializzata come la prova provata del fatto che lo stato non garantisce più i propri titoli (ma anche senza Cacs, se uno Stato non ha più risorse non ripaga!) sarebbero di ostacolo alla ridenominazione del debito in quanto, secondo Mediobanca, eventuali cause legali avrebbero poche probabilità di successo. In termini semplici, infatti, le Cacs prevedono che, se approvata da una certa percentuale dei detentori dei titoli (superiore al 66,7% o al 75% a seconda dei casi), una particolare manovra di ristrutturazione del debito pubblico sarebbe applicabile anche a coloro che sono contrari alla stessa; ma viceversa, se non si raggiungesse questa percentuale, difficilmente sarebbe applicabile una ridenominazione in lire, a meno di non volere forzare la mano (stante poi la difficoltà di ritornare sul mercato).
- Si tornerebbe ad una situazione “pre divorzio” con la Banca d’Italia, al fine di assicurare alla banca centrale nazionale di poter armeggiare liberamente in titoli di stato
- Si applicherebbe la Lex Monetae prevista dall’articolo 1277 del codice civile[3] a tutti i titoli sotto la giurisdizione domestica
A questo punto, il report di Mediobanca presenta una prima sintesi dei valori in essere che potrebbero creare perdite a seguito dell’Italexit:
- 48 miliardi di euro di debito emesso secondo legislazioni straniere che non permettono la ridenominazione (quindi questi sarebbero da ripagare comunque in euro o in valuta)
- 902 miliardi di euro di titoli già emessi con Cacs (ma la previsione è che entro il 2022 tutti i titoli di stato emessi con vita residua superiore ad un anno avranno le Cacs). Anche per questi titoli, Mediobanca considera che non sarebbero ridenominabili in lire.
- 210 miliardi di euro di titoli detenuti dalla BCE (Mediobanca ipotizza che 105 siano assistiti da Cacs e 105 no)
- 151 miliardi di euro di derivati (su questi vi sarebbe una perdita implicita 37 miliardi)
Partendo dalle ipotesi di cui sopra, Mediobanca stima in definitiva che i costi di una eventuale ridenominazione ammonterebbero a circa 232 miliardi di euro (derivanti essenzialmente dal fatto che molti titoli dovrebbero comunque essere ripagati in euro), a fronte di guadagni di 239 miliardi di euro derivanti dalla conversione in lire dei restanti titoli (ammontare di circa 932 miliardi di euro). La figura sottostante sintetizza la situazione così come ipotizzata da Mediobanca. Si noti che l’ammontare complessivo di titoli di Stato nel 2016 è pari a 1.882 miliardi di euro, che non corrisponde al totale del debito pubblico italiano, come noto ben superiore ai 2.000 miliardi: ciò perché parte del debito pubblico è rappresentato da debiti diretti delle pubbliche amministrazioni e non da titoli di stato.
Figura n. 3. La scomposizione del debito pubblico italiano secondo le stime di Mediobanca
Fonte: Report Mediobanca
In definitiva, secondo i calcoli di Mediobanca, la ridenominazione del debito porterebbe ad un guadagno di soli 8 miliardi di euro; in realtà, però, il report sottolinea che tale valore è fortemente influenzato dalle ipotesi relative ai titoli inseriti nel QE. A seconda dei possibili scenari, infatti, la ridenominazione del debito in lire potrebbe portare a guadagni molto più elevati (se l’Eurozona ci consentisse in pratica di inflazionare tutti i titoli del QE. Poco probabile), o a forti perdite (se l’Eurozona non consentisse di inflazionare nemmeno parzialmente i titoli del QE. Più probabile). Ad ogni modo, più il tempo passa e più i titoli di Stato in circolazione sono assistiti dalle Cacs, minore diviene l’incentivo ad uscire dall’euro e tornare alla vecchia lira, almeno per quanto concerne la ridenominazione del debito pubblico; e a questa si dovrebbero aggiungere le perdite che deriverebbero dalla conversione del debito privato: molte imprese italiane, infatti, sarebbero comunque costrette a ripagare i propri debiti in euro.
In conclusione, al fine di risistemare le finanze pubbliche stante la perdurante assenza di crescita economica, sembrerebbe più probabile e più conveniente per il governo italiano (dovessimo arrivare ad un aut-aut) procedere ad una ristrutturazione del debito più che ad una Italexit: non che la prima delle due opzioni sia indolore (immaginatevi l’impatto che avrebbe sul portafoglio titoli delle banche!), ma consentirebbe di attivare una procedura più ordinata (anche sfruttando le stesse Cacs) e non sarebbe un vero e proprio salto nel buio. Non è però da escludere che si tenti semplicemente di vivacchiare aumentando la tassazione e diminuendo i servizi, come già sta avvenendo.
Reference Shelf
- Caparello A., Mediobanca: “Italia risparmia uscendo dall’euro” 27 gennaio 2017, http://www.wallstreetitalia.com/italexit-mediobanca-qunto-si-risparmia-uscendo-dalleuro/
- Galli G., Italexit, che boomerang: il debito al 160% del Pil in una notte, 16 febbraio 2017
- Gugliemi A., Suarez J., Signani C., Italy (country update), Mediobanca Securities, 19 gennaio 2017
[1] In particolare il report evidenzia una forte correlazione tra produttività media del lavoro e tasso di cambio.
[2] La stessa Mediobanca, peraltro, nella parte finale del suo report indica come vi sia una forte correlazione tra la probabilità di uscita dell’Italia dall’euro e la probabilità di un totale Euro break-up
[3] I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale. Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima.