Per diverso tempo è stata lo spauracchio di molti consulenti finanziari, inizialmente convinti che l’introduzione della MIFID II avrebbe costretto tutti a cambiare approccio di lavoro e a passare, obbligatoriamente, alla consulenza fee only sul modello inglese della RDR (Retail Distribution Review). Quando finalmente si è capito che la MIFID II non impone per forza di cose di optare per la consulenza indipendente (basata sull’esclusivo pagamento del cliente e senza possibilità di inducements), e che la maggior parte delle grandi reti rimarrà, almeno inizialmente, nell’alveo della consulenza dipendente (pur potendo proporre anche forme di pagamento fee only o fee on top), gli animi si sono in parte calmati.
Ma ci si è poi accorti che, probabilmente, l’impatto principale della MIFID II riguarderà la maggior trasparenza dei costi, la quale potrebbe portare ad una ridefinizione al ribasso del pricing dei servizi e dei prodotti offerti. Nell’ipotesi che tale scenario si palesi, il processo partirebbe dalle case di investimento (ragioniamo qui in un’ottica di architettura aperta), sempre più spinte dal mercato ad offrire classi di fondi con commissioni di gestione minori; e, a cascata, ciò andrebbe ad incidere sulla quota di management fee dei consulenti, essendo poco probabile che le mandanti rinuncino in maniera consistente ai loro introiti per mantenere inalterati quelli dei propri uomini. Il processo si propagherebbe poi anche ai prodotti wrapper che, per quanto più opachi, non sfuggirebbero a lungo al raffronto con altri prodotti più efficienti. Ecco allora subentrare il timore che, comunque, la MIFID II ridurrà l’ammontare dei ricavi per i consulenti finanziari.
Ma è proprio così? Facciamo qualche considerazione per capire come affrontare questo potenziale cambiamento.
Innanzitutto è facile comprendere che l’eventuale diminuzione del management fee può essere controbilanciata da un aumento delle masse gestite. Su questo punto, a mio avviso, tutte le reti si stanno adeguatamente muovendo, cercando di incentivare i propri consulenti a sviluppare soprattutto clientela affluent e HNWI così da innalzare il procapite medio.
Un altro passaggio che potrebbe essere foriero di nuovi introiti è proprio quello verso la consulenza a pagamento, spesso (erroneamente) temuta da quei consulenti finanziari che ritengono (ancora) che il cliente italiano non sia disposto a pagare una commissione diretta per il servizio offerto, specie in anni di performance non esaltante. Indipendentemente dal fatto che la consulenza sia offerta come indipendente o meno (scusate il gioco di parole), proporre contratti basati sulla logica fee only, con ribaltamento sul cliente della quota di commissione di gestione spettante alla banca potrebbe infatti, a conti fatti, risultare conveniente sia per il cliente sia per il consulente.
Detto in altri termini, se oggi un fondo comune costa, ad esempio, il 2% di commissione di gestione, diviso 1% e 1% tra casa di investimento e banca distributrice (ammettiamo che 0,5% giunga a valle al consulente), il passaggio alla consulenza fee only eliminerebbe per il cliente l’1% incassato dalla banca (e in parte dal consulente) e potrebbe altresì ridurre l’1% relativo alla casa di investimento se questa fosse costretta ad abbassare le sue pretese; d’altra parte in consulenza fee only si potrebbe optare per un maggior utilizzo di strumenti quali ETF. Se ipotizziamo una riduzione allo 0,75% della commissione spettante alla casa di investimento, e manteniamo un 1% di commissione di consulenza, ci troveremmo in una situazione in cui il ricavo del consulente rimarrebbe essenzialmente uguale, e il costo per il cliente diminuirebbe. In definitiva, tutto ruota intorno alle logiche di pricing che verranno utilizzate dagli intermediari nel proporre la consulenza a pagamento.
Ma vi è poi un’ulteriore possibilità non ancora adeguatamente considerata dai consulenti finanziari. E’ bene ricordare, infatti, che i consulenti finanziari sono comunque degli imprenditori (individuali), e come tali dovrebbero comportarsi. Con ciò intendo dire che quando un’impresa (di successo) si accorge che la sua principale linea di business inizia a produrre minori margini, essa cercherà di implementare nuove attività di affari così da diversificare le proprie fonti di ricavo.
Per quanto attiene in particolare alla figura del consulente finanziario, le ulteriori fonti di ricavo potrebbero consistere nell’offerta di prodotti alternativi quali polizze ramo danni, TCM e LTC (e, vivaddio, quanto ce ne sarebbe bisogno in una logica di pianificazione finanziaria!), ovvero nell’ampliamento del servizio di consulenza offerto anche al di là del finanziario puro. Non è un caso che ormai la quasi totalità delle reti stia allargando il proprio raggio di azione proponendo non solo una consulenza più approfondita in merito al passaggio generazionale (ormai un must), ma anche tools di valutazione immobiliare, consulenza aziendale in tema di gestione finanziaria e operazioni straordinarie (private equity deal), art advisory.
In tale ambito, non sono infine da dimenticare alcuni investimenti fisici che soprattutto la clientela HNWI potrebbe essere interessata ad effettuare, quali oro, diamanti e altri beni di lusso. Si tratta infatti di investimenti aventi interessanti valenze sia nell’ottica del passaggio generazionale, sia in qualità di beni rifugio in grado di proteggere il patrimonio da eventi veramente catastrofici (guerre, Italexit, default diffusi ecc..), e che il consulente finanziario dovrebbe saper intercettare e ricondurre nell’alveo di una pianificazione finanziaria e patrimoniale sempre più olistica.
In definitiva, guadagnare di più con la MIFID si può …. ma occorre capacità e spirito imprenditoriale, nonché competenze adeguate al nuovo contesto di mercato.