Quant’è probabile il verificarsi del cosiddetto “Cigno Nero”, termine coniato dal celebre filosofo, saggista e matematico libanese Nassym Taleb per descrivere un evento caratterizzato, appunto, da una bassissima e difficilmente calcolabile probabilità di accadimento ma dall’impatto molto rilevante?
La domanda, volutamente provocatoria, vuole sottolineare come eventi che consideravamo in passato solo ipotesi molto remote, si siano invece susseguiti negli ultimi anni in modo continuo, cambiando radicalmente lo scenario in cui ci troviamo ad operare. La gestione del rischio, intesa come tradizionale attività volta ad individuare e gestire possibili criticità secondo logiche di probabilità ed impatto sembra non essere più sufficiente e lascia il posto al concetto di resilienza, intesa come capacità di adattarsi a scenari sempre nuovi e mutevoli: resilienza dell’azienda, resilienza della supply chain, resilienza dei portafogli d’investimento (che è poi la tematica che più qui ci interessa).
Da questo punto di vista, la discesa dei corsi azionari e la debacle delle obbligazioni degli ultimi mesi dimostrano come le classiche strategie di bilanciamento fra azioni e obbligazioni non siano più (o sempre) sufficienti a garantire la necessaria decorrelazione all’interno dei portafogli; si rendono quindi necessarie logiche maggiormente improntate alla resilienza (chi si ricordava delle materie prime, delle obbligazioni inflation linked o di talune strategie alternative fino a due anni fa?) e più diversificate in termini di stile (vedi la rotazione dai titoli Growth ai titoli Value).
Il premio per il rischio
In questo articolo analizzeremo il complesso scenario attuale attraverso la lente del Risk Premium (Premio per il Rischio), ovvero del rendimento aggiuntivo rispetto a quello di un ipotetico investimento a rischio zero, richiesto dal mercato per investire in attività rischiose. In particolare ci focalizzeremo sulla valenza di tale grandezza e su come essa debba essere attualmente interpretata (facendo qui riferimento al mercato americano). Il premio per il rischio, così come definito nell’ambito del CAPM di Sharpe, è dato dalla differenza fra il rendimento del portafoglio di Mercato e il rendimento dell’attività prima di rischio secondo la seguente formula:
dove:
E (M)= rendimento del Portafoglio di Mercato
R (f)= rendimento dell’attività priva di rischio
Nel modello di Sharpe, il portafoglio di Mercato è un concetto puramente teorico, in quanto composto da tutte le attività rischiose investibile quotate e non (quindi non solamente titoli azionari ma anche, per esempio, titoli obbligazionari corporate e high yield) ed è efficiente in quanto sconta tutta l’informazione disponibile, mentre l’attività priva di rischio è caratterizzata da una volatilità nulla e da una correlazione uguale a zero rispetto alle altre asset class.
Per calare questo modello nella realtà dobbiamo però effettuare qualche approssimazione; in particolare, quando parliamo di investimenti di natura azionaria, il Portafoglio di Mercato viene solitamente approssimato da un indice azionario di ampio respiro (S&P 500, Eurostoxx 600 ecc..), mentre l’attività priva di rischio viene identificata in un titolo di stato (da discutere se a breve o decennale), coerente, in termini valutari, con la valuta di riferimento del mercato azionario considerato[1].
Per quanto riguarda il rendimenti delle due attività, mentre il rendimento dell’attività priva di rischio viene speso riferito al rendimento effettivo a scadenza a dieci anni (con la conseguenza che, allora, tale attività sarà veramente risk free solo se detenuta fino a scadenza), il rendimento atteso del mercato azionario può essere calcolato come rapporto fra gli utili attesi a 12 mesi e la capitalizzazione dell’indice (Earning Yield)[2]. Quest’ultimo indicatore non è che l’inverso del più noto Price Earning e risponde alla seguente domanda: di quanto dovrebbe apprezzarsi il mercato nei prossimi 12 mesi se fosse guidato solamente dalla dinamica dagli utili aziendali attesi nello stesso periodo? [3]
Ma che tipo di informazioni ci fornisce l’Equity Risk Premium? Innanzitutto, tale grandezza ci rivela il grado di propensione o, viceversa, di avversione al rischio degli investitori. Momenti di elevata turbolenza del mercato tenderanno a coincidere con aumenti, anche significativi, dell’Equity Risk Premium, mentre in presenza di condizioni favorevoli all’investimento azionario tale premio tenderà a ridursi. In momenti di avversione al rischio, infatti, gli investitori vendono le azioni detenute in portafoglio, riducendone le quotazioni e aumentando, in questo modo, l’Earning Yield, e cercano contemporaneamente rifugio nei titoli di stato, le cui quotazioni si apprezzano diminuendone per questa via il rendimento atteso.
Nei grafici sottostante possiamo notare, per esempio, come L’Equity Risk Premium relativo al Mercato Americano abbia subito notevoli allargamenti in corrispondenza della Crisi Finanziaria 2007-2009 e, successivamente, nel 2010-2011 con la crisi del debito sovrano europeo. I grafici evidenziano anche come, nell’attuale momento storico, gli investitori fatichino a trovare protezione nell’investimento in obbligazioni governative, le quali, in presenza di condizioni eccezionali d’inflazione e con un mercato del lavoro in piena occupazione scontano una Banca Centrale Americana molto restrittiva nella conduzione della politica monetaria. Possiamo osservare, infatti, come l’Equity Risk Premium non abbia subito allargamenti sostanziali proprio perché il ribasso del Mercato Azionario di questi mesi è coinciso con un aumento dei tassi reali.
Il secondo tipo di informazioni che l’Equity Risk Premium ci fornisce riguarda l’eventuale presenza di situazioni di sopravalutazione o sottovalutazione del Mercato Azionario. Da questo punto di vista, a situazioni nella quali l’Equity Risk Premium risulta essere eccessivamente compresso possono seguire movimenti al ribasso, anche consistenti, di tale mercato, come occorso in occasione dello scoppio della Bolla Dot.com con il premio per il rischio arrivato ad azzerarsi subito prima del grande crollo della Borsa Americana. Se avessimo acquistato titoli azionari all’apice delle Crisi Finanziaria 2008, avremmo, invece, successivamente registrato notevoli incrementi del capitale investito. Collegato a questo tipo di interpretazione vi è l’utilizzo dello Equity Risk Premium quale indicatore di convenienza relativa dell’investimento azionario rispetto all’investimento obbligazionario e viceversa. Partendo dal presupposto che le due tipologie d’investimento sono in concorrenza fra loro, gli investitori adotteranno le loro decisioni d’investimento sulla base del confronto fra i relativi rendimenti prospettici. Da questo punto di vista, nel 1997 l’economista americano Edward Yardeny elaborò un modello, denominato Fed Stock Valuation Model (FSVM), sulla base dell’osservazione di come il rendimento nominale dei Titoli di Stato U.S.A. e l’Earning Yield espresso dall’S&P 500 fossero risultati praticamente uguali (spread medio dello 0,25%) a partire dal 1979. La scelta fra Mercato Azionario e Obbligazionario doveva quindi effettuarsi sulla scorta del confronto fra i rendimenti prospettici delle due asset class. Nel caso in cui l’Earning Yield fosse risultato maggiore del Rendimento a scadenza dei Titoli del Debito Usa, la preferenza sarebbe andata all’investimento azionario e viceversa. Il modello che, a dispetto del nome, non è stato mai ufficialmente adottato dalla Fed, ha funzionato bene fino alla fine degli anni 90, perdendo in seguito buona parte del suo credito e della sua significatività.
A dispetto dell’apparente linearità e semplicità delle modalità interpretative descritte, l’applicazione pratica del concetto di Equity Risk Premium si rivela esercizio piuttosto “scivoloso”. Innanzitutto, esiste un valore di equilibrio di tale premio, in corrispondenza del quale possiamo ritenere che il Mercato Azionario e il Mercato Obbligazionario siano correttamente prezzati? Prendendo in considerazione il periodo 1979-2016, l’Equity Risk Premium medio relativo all’S&P 500 si è attestato a 500 bp, ovvero più o meno il valore evidenziato oggi.
In prima battuta dovremmo quindi ritenerci rassicurati dal fatto di trovarci in corrispondenza di un valore medio di lungo periodo. Tuttavia, i saliscendi di tale grandezza sono stati notevoli nel corso del tempo; nel 1979 esso si attestava a 1000 bp per poi scendere a 400bp da metà anni Ottanta a metà anni Novanta, fino ad arrivare a 0 alla vigilia dello scoppio della bolla Dot.com. Successivamente, esso è risalito a 400 bp e, dal 2006 in poi, il suo valore si è attestato più o meno attorno ai 600 bp. La volatilità espressa dall’Equity Risk Premium sembra quindi essere troppo elevata per permetterci di trarre conclusioni sul suo Fair Value, anche in considerazione del fatto che l’Earning Yield e il Bond Yield si sono mossi molto diversamente uno rispetto all’altro in corrispondenza di vari periodi storici, risultando fortemente correlati fino a fine anni Novanta e presentando traiettorie molto diverse successivamente. Esistono quindi variabili quali, per esempio, l’innovazione tecnologica e le politiche monetarie perseguite dalla Banca Centrale, in grado di modificare nel tempo il valore di equilibrio dell’Equity Risk Premium? Se così fosse, esprimere previsioni per il futuro risulterebbe quanto meno problematico.
Inoltre, siamo sicuri che, come avviene nel grafico riportato in precedenza, gli investitori confrontino l’Earning Yield con il rendimento reale dei Titoli di Stato? Perché non porre a confronto il rendimento del Mercato Azionario con i rendimenti nominali (oggi vicini al 3%)? D’altra parte, la stessa Fed, nel Monetary Policy Report che accompagnò il noto discorso di Alan Greenspan del Luglio 1997 sull’”Irrational Exuberance” del Mercato Azionario, parlò di rendimenti nominali eccedenti l’Earning Yield del Mercato Azionario, in parte avvalorando questo tipo di impostazione e dando lo spunto al citato economista Edward Yardeny ad elaborare ed approfondire il suo Fed Model.
Dal grafico sopra riportato, possiamo notare che se calcoliamo l’Equity Risk Premium tramite l’utilizzo dei rendimento nominale del Decennale Usa, le distanze fra i rendimenti prospettici del Mercato Azionario e il rendimento a scadenza del titolo decennale si riducano al 2,56% (5,32% -2,76%), riportandoci l’evidenza di un Mercato Azionario meno generoso nel ripagare i rischi in termini di rendimenti attesi rispetto a quanto presentato nei grafici precedenti.
Il grafico da conto inoltre del motivo per cui il Fed Model, nella sua originaria versione, ha costituito fino a fine anni 90’ un utile strumento in fase di allocation; possiamo infatti osservare come il rendimento del Decennale Usa sia risultato vicino (graficamente quasi sovrapposto) all’Earning Yield espresso dal Mercato Azionario dal 1980 al 1998, rendendo in effetti plausibile un confronto fra i due nella scelta fra investimento azionario e obbligazionario.
Partendo tuttavia dal presupposto che, soprattutto in periodi di elevata inflazione come quello attuale, il risk free rate debba essere più opportunamente espresso in termini reali, dovremmo rendere coerente con questa impostazione anche il modo in cui esprimiamo l’altro elemento della nostra formula ovvero l’Earning Yield: e qui cominciano i problemi.
L’Earning Yield reale evidenzia infatti, attualmente, un valore negativo, come possiamo evincere dal grafico sottostante, aggiornato al quarto trimestre 2021.
Ciò si traduce in un Equity Risk Premium anch’esso inferiore a zero, che non sembra essere di buon auspicio per il Mercato Azionario. Il grafico evidenzia infatti come, in passato, valori reali negativi dell’Earning Yield siano spesso coincisi con ribassi pari o superiori al 20% (identificati dalle zone d’ombra presenti nel grafico).
L’andamento del Mercato Azionario in questo inizio d’anno sembrerebbe confermare questo tipo di ipotesi, con l’S&P 500 arrivato a cedere, alla data in cui scriviamo, circa il 13% YTD, e potrebbe far presagire un ribasso non ancora giunto a conclusione.
Attenzione quindi a rimanere fedeli all’orizzonte temporale d’investimento e a gestire l’emotività che la complessa situazione che stiamo vivendo può generare. Ogni situazione, tuttavia, riserva delle opportunità che si estrinsecano attualmente, a mio modo di vedere, in rendimenti del Mercato Obbligazionario che non vedevamo da tempo e che magari potrebbero portarci a ridurre, almeno in parte, il sottopeso che questa asset class ha nei portafogli.
D’altra parte, un T-Note sulla soglia del 3% e magari oltre potrebbe non essere un cattivo affare, specialmente se la Fed dovesse andarci troppo pesante nel tentativo di frenare l’inflazione. Una politica monetaria eccessivamente restrittiva potrebbe infatti impattare negativamente sulle prospettive di crescita dell’economia americana scontate dalla parte a medio termine della curva dei rendimenti che, a quel punto, ritornerebbe ad essere interessante, soprattutto a fini di protezione del portafoglio, visto che i rendimenti reali, con un’inflazione attesa vicina al tre per cento a dieci anni, risulterebbero comunque contenuti.
[1] La presenza del rischio di cambio farebbe infatti venir meno la caratteristica di rischio nullo di tale attività. Ad essere ancora più precisi, dovremmo considerare la valuta di denominazione dei cash flow aziendali o delle cedole pagate da un titolo obbligazionario. Per esempio, lo spread di un’obbligazione emessa da un Paese Emergente in USD viene espresso tramite il confronto con il rendimento del Titolo di Stato Americano. In riferimento al Mercato Azionario, avremo quindi risk free rate diversi per il Mercato Americano, il Mercato Inglese, il Mercato Giapponese ecc… Per quanto riguarda l’Area Euro, il fatto di non poter controllare la politica monetaria rende teoricamente fallibili i titoli di stato dei Paesi membri; rischio evidentemente più accentuato per alcuni Paesi che per altri. Per risolvere questo problema viene considerato risk free il titolo dell’Area che presenta i rendimenti minori, ovvero, attualmente, il Governativo Tedesco.
[2] Ma non mancano altre metodologie e logiche per stimare tale valore
[3] Sappiamo, infatti, che il Mercato Azionario può apprezzarsi anche per l’espansione dei multipli, conseguente ad aspettative di crescita di lungo termine più elevate e/o di tassi d’interesse e premi per il rischio in diminuzione.
Reference Shelf
- Predicting The Markets. Edward Yadeny 2018
- What is the risk free rate? A Search for the Basic Building Block. Aswalth Domodaran 2008
https://pages.stern.nyu.edu/~adamodar/pdfiles/papers/riskfreerate.pdf