I sondaggi, a dire il vero, non mi sono mai piaciuti.

Li prendo sempre con le pinze sapendo bene, da modesto accademico, che il modo in cui le domande vengono poste, e quello con cui le risposte sono interpretate, può significativamente influenzare i giudizi che ne conseguono.

Ma visto il tema, e data la possibilità offerta da linkedin, una prova l’ho voluta fare anche io.

Ho cercato il più possibile di essere neutro: una singola domanda, quattro risposte credo abbastanza chiare da decifrare e tra cui scegliere. Siete preoccupati (cari consulenti finanziari), di una eventuale messa al bando degli inducements (di cui tanto si discute in questi tempi dopo le pressioni poste sull’argomento dalla Commissione Europea. Vedi articolo)?

Risposte possibili: 1) Sì, molto 2) Sì, abbastanza 3) No, per niente 4) Non conosco la questione

Il numero di rispondenti si attesta a 431. Certo, lo ammetto, un campione non proprio significativo visto che il numero di consulenti finanziari attivi si aggira intorno alle 33.800 unità secondo i dati OCF; ma non del tutto irrilevante e adeguatamente distribuito sulle principali realtà di consulenza finanziaria.

D’altra parte, il mio scopo non era certo quello di effettuare un’analisi statistica robusta, ma semplicemente di raccogliere il sentiment dei consulenti e ricevere magari qualche commento interessante. Se messa in questo modo, posso affermare che l’esperimento è riuscito.

 

I risultati

A prima vista sorprendenti. Nonostante gli allarmi(smi) che giungono un po’ da ogni parte, la risposta nettamente più gettonata è: “No, per niente”, con uno share del 46%. Tale percentuale è pari alla somma delle percentuali attinenti alle risposte che prevedevano un Sì: Sì, molto (15%); Sì, abbastanza (31%).

E anche l’8% della risposta “Non conosco la questione” qualche perplessità la pone.

Proviamo allora a trarre qualche considerazione dai risultati ottenuti.

A parte qualche outsider non consulente finanziario, ma comunque in parte interessato alla questione (direttori di filiali ad esempio), tra coloro che hanno risposto “No, per niente” ritroviamo operatori delle principali realtà di consulenza finanziaria. Pur non avendo i dati anagrafici a disposizione, intuiscono dalle facce che si tratta di consulenti, uomini e donne, di diversa età. Non sembra quindi che sia l’anzianità lavorativa, ovvero il portafoglio a dettare il sentiment.

Evidentemente si tratta di operatori che o adottano già forme di consulenza basate su fee pagate dal cliente, e credono quindi che il bando degli inducements non cambi loro la vita; oppure pensano che la questione sia oltremodo gonfiata e che “…. vedrai che in qualche modo la risolvono”. Un finale a tarallucci e vino, come già avvenuto con la MIFID II e con la tanto temuta trasparenza dei costi.

E difatti, al momento nulla è ancora detto. Non tutti i paesi, in primis il nostro, sono a favore di questo ipotizzato bando. Voci autorevoli si sono già levate, e chi di dovere si è già mosso (Assoreti) per mettere i puntini sulle “i” e paventare le conseguenze negative che potrebbe avere il bando.

Se andiamo dall’altra parte della barricata, nel campo del Sì, troviamo un 15% molto preoccupato. Anche in questo caso non mi sembra vi sia una particolare declinazione nelle caratteristiche dei rispondenti. Peraltro, vi sono anche consulenti di reti che già adottano forme di consulenza fee based, ovvero che possono consulenziare, più o meno direttamente, anche prodotti a basso costo come ETF.

In parte è lecito ipotizzare che i timori derivino qui dalle specifiche caratteristiche del portafoglio clienti. Chi ha clientela di vecchia data, e anagraficamente più in là con gli anni, potrebbe infatti ritenere difficoltoso spostare le abitudini della stessa verso nuove forme di pricing. E ciò nonostante la (opaca a dire il vero) trasparenza sugli inducement già oggi esistente.

Sul punto, di certo non allieta il resoconto della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, che ha recentemente indicato come buona parte degli intervistati non sia intenzionata a pagare per la consulenza (circa il 60% del campione intervistato. Ma il restante pagherebbe, quindi?).

Il “Sì, abbastanza” può essere interpretato in tanti modi diversi. Temo la cosa, ma spero che non avvenga e per ora non mi fascio la testa. Temo la cosa, ma guardando il mio portafoglio me la cavo comunque. Temo la cosa, ma male che vada vedrai che qualche escamotage si trova: mica possono non pagare i consulenti.

 

Gli scenari possibili

Cosa può succedere quindi? Andiamo con ordine.

Se il bando non passa, o viene rimandato, pace e bene per tutti. A risentirci.

Se il bando passa, allora diventano fondamentali i dettagli, in cui per antonomasia si nasconde il diavolo. E cioè: si tratterebbe di un bando totale e “talebano” diciamo, o una soluzione di compromesso, come spesso capita a livello europeo, in cui si cerca di salvare capra e cavoli?

Per capire comunque gli eventuali effetti del bando, partiamo dalla situazione attuale. E’ noto che al momento la normativa prevede quanto segue:

 

  • Gestione di portafoglio e consulenza su base indipendente (art. 54 Regolamento Consob Intermediari): no incentivi. Quindi, già oggi, su tali fattispecie di servizio gli incentivi non ci sono. Nella gestione di portafoglio il cliente paga la commissione annua che viene decurtata dal suo patrimonio. Nella consulenza su base indipendente, attivabile dalle stesse banche e reti di consulenza, si applicherebbe la logica fee only tipica dei consulenti autonomi. Ora, mentre le gestioni di portafoglio sono storicamente proposte dalle banche, la consulenza su base indipendente non ha preso piede. Gli intermediari hanno preferito optare per la consulenza su base non indipendente, che permette appunto gli incentivi, anche se in alcuni casi essa viene in effetti “prezzata” sotto forma di fee only[1] o fee on top. Si noti, tuttavia, che anche in queste fattispecie rimangono ammissibili alcuni benefici non monetari di minore entità quali: ospitalità di un valore de minimis ragionevole, come cibi e bevande nel corso di un incontro di lavoro o di una conferenza, seminario o altri eventi di formazione. I benefici non monetari di minore entità ammissibili devono essere ragionevoli e proporzionati e tali da non incidere sul comportamento dell’intermediario in alcun modo che sia pregiudizievole per
    gli interessi del cliente. Tradotto: la casa di investimento offre l’aperitivo durante la serata clienti(?)

 

  • Consulenza su base non indipendente e altri servizi di investimento (Art 52 e 53 Regolamento Consob Intermediari): Sì incentivi ma a specifiche condizioni. Infatti, recita la normativa, gli intermediari non possono, in relazione alla prestazione di un servizio di investimento o accessorio, pagare o percepire compensi o commissioni oppure fornire o ricevere benefici non monetari a o da qualsiasi soggetto diverso dal cliente o da una persona che agisca per conto di questi, a meno che i pagamenti o i benefici: a) abbiano lo scopo di accrescere la qualità del servizio fornito al cliente; e b) non pregiudichino l’adempimento dell’obbligo di agire in modo onesto, equo e professionale
    nel migliore interesse del cliente.

 

Sul punto, l’articolo 53 del regolamento specifica le condizioni di ammissibilità degli incentivi. Senza entrare nel dettaglio, l’idea è che il pagamento implicito dell’incentivo serva ad ottenere un servizio di qualità maggiore, consistente ad esempio nella possibilità di accedere ad una ampia gamma di prodotti di case terze (multibrand) ovvero nel ricevere una consulenza continuativa e che permetta di avere un monitoraggio frequente dell’adeguatezza dei prodotti consigliati.

In pratica il lavoro del consulente finanziario: vado dal cliente periodicamente, valuto insieme a lui se aggiustare il portafoglio, propongo e inserisco nel portafoglio del cliente anche prodotti di case terze, monitoro tramite i tool messi a disposizione dalla mandante il rischio. In più: faccio pianificazione finanziaria, analizzo l’indebitamento e propongo eventuali surroghe, gestisco l’emotività del cliente assorbendone le paturnie, curo il passaggio generazionale cercando di non fare litigare gli eredi, risolvo il problema della carta di credito di credito e, capita, ….. faccio da testimone al matrimonio della figlia.

Ma attenzione, lo stesso articolo recita quanto segue: “un compenso, commissione o beneficio non monetario è inammissibile qualora la prestazione dei servizi al cliente sia distorta o negativamente influenzata a causa del compenso, della commissione o del beneficio non monetario”. Il che significa che, in caso di estrema distorsione delle proposte fatte al cliente, si potrebbe già oggi intervenire per bloccare l’incentivo. Non mi risulta che ciò sia mai avvenuto.

A questo punto, ci dobbiamo chiedere: perché si vuole modificare questa impostazione legislativa? Non è essa sufficiente al fine di fornire al cliente un servizio adeguato? E’ poco trasparente?

I motivi, leciti e nobili, sono molteplici.

Innanzitutto, viene messo in evidenza che il meccanismo degli incentivi renderebbe più costosi gli strumenti finanziari per i clienti finali, specie in Italia. Così indicano infatti diverse ricerche comparative effettuate a livello europeo, prendendo in particolare a riferimento il modello di UK e Olanda dove gli incentivi sono già stati banditi.

Ottimo, e chi non vorrebbe che così fosse.

Ma come ho avuto modo di scrivere in qualche commento a diversi post sui social, siamo sicuri che sarebbe veramente così? Se togliamo gli incentivi quanto verrebbe a costare, ad esempio, un fondo comune di investimento per il cliente finale? Dipende: se su quel fondo vuoi avere una consulenza (seria), ti tolgo la retrocessione che la casa di investimento gira alla banca distributrice (l’inducement appunto), ma ti metto il costo della consulenza. Esempio: commissione gestione del fondo 1,80%, di cui 0,90% alla casa di investimento e 0,90% al distributore (e pro quota al consulente finanziario). Togliamo quest’ultimo 0,90% e mettiamo la commissione di consulenza: quanto fa? Dipende appunto da quanto mi fanno pagare la consulenza.

E qui servirebbe, a mio avviso, maggiore concorrenza nel settore bancario-finanziario, che invece ha subìto forti processi di concentrazione negli ultimi 10 e passa anni, sia da lato banche tradizionali, sia dal lato reti di consulenza finanziaria. Se c’è poca concorrenza il costo potrebbe infatti rimanere elevato: le poche banche leader del settore farebbero semplicemente cartello. Ed al momento mi sembra che le soluzioni di fintech (leggasi robo-advisor) o i consulenti autonomi non riescano ancora ad incidere significativamente. Può darsi più avanti.

Inoltre, non possiamo dimenticare che, in realtà, la possibilità di accesso a prodotti poco costosi già esiste per tutti gli investitori italiani. Sull’ETF plus di Borsa Italiana sono quotati più di 1.300 ETF tra cui scegliere, non pochi dei quali caratterizzati da TER (total expense ratio o spese correnti veramente bassi[2]). Eppure, permangono sui conti correnti degli italiani circa 1.800 miliardi. Perché non sono investiti in prodotti di risparmio gestito tradizionali o in ETF? Tutta e solo colpa degli incentivi e delle famigerate commissioni di retrocessione pagate ai consulenti finanziari? Non credo.

Un altro aspetto che si può mettere in evidenza è il conflitto di interessi. Se una banca e il suo consulente, o dipendente, sono incentivati a distribuire certi prodotti rispetto ad altri, perché più redditizi, allora questo potrebbe creare una distorsione nell’offerta a discapito dell’interesse del cliente. Se togliamo gli incentivi il conflitto di interesse andrebbe a diminuire?

In parte probabilmente sì, ma ritengo che nel campo finanziario, così come in tutti i settori, i conflitti di interesse esistono e continueranno ad esistere. L’importante è conoscerli; e già oggi la normativa in materia, almeno nel settore finanziario, prevede una specifica informativa. Che poi il cliente non la legga attentamente, non se ne preoccupi, o semplicemente non ci faccia caso, ovvero non ne venga adeguatamente reso consapevole, è un altro aspetto, un problema di disclosure.

Inoltre, pur comprendendo l’importanza della tutela del risparmio per i cittadini (e ci mancherebbe) ritengo che la questione dei conflitti di interesse sia oltremodo attenzionata nel settore, e non sempre nel modo corretto.

In generale, permettetemi, sembra quasi che la finanza si vergogni di se stessa (e ne avrebbe ben donde osserveranno i maligni): vendere è diventata una parola tabù (si consiglia); far pagare tanto e guadagnarci sembra uno scandalo; pensare di applicare commissioni di ingresso o di performance un sacrilegio.

Facciamo allora un paio di esempi.

Se andate a comprare un paio di scarpe in un negozio multimarca, siete certi che il venditore non vi proponga in prima istanza quei modelli su cui ha un maggior guadagno? Sarebbe da biasimare per tale comportamento? “Beh … ma tanto poi io scelgo le scarpe che voglio ed eventualmente posso andare in un altro negozio”, direte voi. Ma la stessa cosa vale anche nel settore bancario e finanziario: le alternative ci sono, anche se come detto la concorrenza non è accanita. Perché gli investitori non cambiano banca o consulente frequentemente se il servizio è costoso?

Altro esempio. Mi ricordo ancora le lezioni di Economia delle aziende di credito (siamo a metà degli anni ’90) in cui il prof. Oriani raccontava a noi studenti come il rapporto tra raccolta diretta (depositi e obbligazioni) e raccolta indiretta (risparmio amministrato e risparmio gestito) delle banche fosse altalenante: se una filiale fa troppa raccolta diretta ad un certo punto qualcuno dall’alto suggerirà di passare all’offerta di fondi; viceversa, se è necessario collocare più depositi ed obbligazioni si tirerà il freno sul risparmio gestito. Conflitto di interessi?

Ed oggi? Che succede?

E’ noto che fino a qualche tempo fa l’eccesso di liquidità sui conti correnti era visto come il fumo negli occhi dalle banche, costrette com’erano a pagare un tasso negativo di deposito alla BCE. Ma con la situazione attuale (tasso di deposito BCE 2,5% e in prospettiva anche più alto, ed inflazione elevata), una banca che non spinge con vigore i clienti ad investire i soldi fermi sui conti corrente, potendoci guadagnare sopra con sicurezza un buono spread, è in conflitto di interesse? E’ da biasimare? In fondo sta facendo il suo lavoro di intermediazione: raccoglie denaro (a breve e a tassi bassi) e presta denaro (a più lungo termine e a tassi più alti). Si chiama trasformazione delle scadenze e nessuno se ne è mai lamentato.

Ultimo esempio: mi dicono che alcune realtà abbiano introdotto particolari incentivi per i propri consulenti finanziari in relazione alla proposizione di prodotti ESG. Nobile intento ovviamente. Ti pago di più se i tuoi clienti sottoscrivono prodotti in linea con gli obiettivi di sostenibilità dettati dall’Unione europea. Ma non è in fondo un conflitto di interessi anche questo?

Torniamo però agli scenari possibili

Ipotizziamo innanzitutto l’applicazione dura e cruda del bando agli incentivi. Cosa accadrebbe?

Qui la situazione è semplice da decifrare, a mio avviso. Tolti tutti i possibili incentivi, si avrebbero o le gestioni patrimoniali (come detto già oggi inducements free) o la consulenza fee only con addebito sul conto del cliente. Probabilmente i costi si abbasserebbero, ma gli intermediari dovrebbero rivedere il loro modello di business e qualche cliente potrebbe essere tout court escluso dalla consulenza (non so dirvi quanti).

In alternativa, rimarrebbe per gli investitori la possibilità di acquisto diretto e senza consulenza di prodotti finanziari quotati (ETF, certificates e fondi), attraverso il servizio di negoziazione e in appropriatezza. Non è un caso, forse, che diverse reti di consulenza stiano sviluppando piattaforme di trading evolute (Fineco docet), finalizzate a clienti retail e a cui si potrebbero agganciare sistemi di robo-advisor a basso costo o, semplicemente, l’accesso a portafogli consigliati. In questo caso…. scordati caro cliente il testimone di tua figlia!

E se invece si arrivasse ad una soluzione di compromesso? Magari mantenendo possibili alcune soluzioni, alcune forme di retrocessione? La situazione sarebbe più complicata ed i risvolti non facilmente decifrabili.

Al riguardo provo a porre alcune ipotesi.

  • I certificates: su questi prodotti le banche e i consulenti finanziari incassano una commissione di collocamento una tantum. Sarebbe ancora possibile? A rigor di logica, e di legge, un bando totale escluderebbe anche questo tipo di commissione, almeno nella consulenza. E se il certificato passa in appropriatezza, ossia se lo compra direttamente il cliente fuori dalla consulenza?
  • Depositi e obbligazioni emesse dalle banche: si potrebbe comunque applicare una commissione di collocamento in questi prodotti, o comunque una sorta di commissione di ingresso?
  • Retrocessioni da prodotti di risparmio gestito della SGR captive, cioè appartenente alla banca distributrice. Anche qui, a rigor di logica e come avviene nelle gestioni, gli incentivi dovrebbero sparire completamente. Ma se una SGR captive aumenta, diciamo un pochino, il TER dei suoi fondi, i quali vengono collocati poi senza incentivi nell’ambito del servizio di consulenza, e a fine anno produce più utili, a chi vanno tali utili? Alla banca capogruppo ovviamente. E questa potrebbe allora pagare un bonus, basato sul totale della raccolta e non sul singolo prodotto, ai suoi consulenti finanziari?
  • In un commento al sondaggio, qualcuno ha messo in evidenza che si stanno pensando forme di pagamento della consulenza fee only basate sulla riduzione automatica delle quote dei fondi/prodotti presenti in portafoglio. Come a dire: al posto di farti addebito sul conto corrente, che ti fa storcere un po’ il naso, ti indoro la pillola dicendoti che, tanto, la commissione di consulenza viene decurtata dai prodotti che hai (che poi è quello che avviene nelle gestioni). Sarebbe possibile tale forma di pagamento?

 

I soggetti coinvolti

Andiamo ora a vedere i risvolti per i soggetti coinvolti nella faccenda, che sono essenzialmente tre: le case prodotto, specialmente quelle estere; le banche; i consulenti finanziari.

Le prime dovrebbero essere a mio avviso le più preoccupate, ma al momento anche loro non sembrano battere ciglio. Vediamo innanzitutto come operano oggi.

Le case estere (del calibro di JP Morgan, Pictet, Fidelity ecc…) offrono al momento i loro fondi in Italia tramite tre canali distributivi.

Il primo è rappresentato dagli accordi commerciali con le banche, ed in special modo con quelle operanti tramite consulenti finanziari. Il loro cliente, in questo caso, è appunto il consulente finanziario, che “spinge” o meno i loro prodotti nei portafogli dei clienti finali. Per esso si prodigano allora in corsi di formazione, fornitura di dati e notizie, road show sul territorio, sponsorizzazioni di serate clienti, e financo gadget provocanti.

Ma se dovessero venire meno gli incentivi, come convincere il consulente a collocare i loro prodotti? Spiegandone la qualità e le caratteristiche, ovviamente. Sufficiente? Non saprei.

Ritengo comunque che già oggi i consulenti finanziari, categoria formata in maggioranza da persone con una esperienza pluriennale nel settore, sappiano separare il grano dal loglio, e scelgano i fondi delle case terze avendo in mente soprattutto l’interesse del cliente, prima del quantum della retrocessione.

E per gli attuali benefici minimali? Come si andrebbe ad operare? Ad esempio, le case terze potrebbero ancora sponsorizzare le serate clienti? In caso di risposta affermativa, saremmo comunque di fronte ad un conflitto di interesse? E rigirandola: qualcuno potrebbe invece impedire alle case terze di organizzare, loro, delle serate clienti in cui, guarda caso, i biglietti di ingresso verrebbero dati a consulenti “più fedeli? Non so, vedremo.

Gli altri canali distributivi a disposizione delle case terze sono i seguenti: a) gli investitori istituzionali (fondi pensione, fondazioni ecc..), ovvero i gestori delle gestione patrimoniali e dei fondi di fondi; b) la vendita diretta al pubblico tramite piattaforme o Borsa Italiana.

Nel caso sub a) è facile intuire che il cliente delle case di investimento non è più il consulente, ma il gestore di un fondo o di una gestione patrimoniale. In altri termini un pari grado di certo non “abbindolabile” (mi si scusi il termine) con un po’ di formazione o una serata clienti. Non voglio pensare a pagamenti sotto banco, ovviamente

Nel caso sub b), invece, è possibile fare riferimento agli ETFA, dove la lettera A sta per attivi. Anche in Italia sono presenti tali strumenti che, in pratica, non sono altro che i tradizionali fondi attivi travestiti da ETF e venduti sul mercato direttamente al pubblico dei risparmiatori finali (ovviamente con TER da ETF o simile). Diverse case terze estere, ben note al pubblico dei consulenti, già li propongono: se volete sapere chi sono andate a cercarli

Negli USA gli ETF attivi costituiscono già oggi una fetta molto ampia del settore degli ETF. Ora, tolti gli incentivi, questi ETFA sarebbero un veicolo molto interessante per le case terze. Vuoi i miei fondi caro consulente? Te li piazzo come ETFA così li puoi scegliere per i tuoi clienti sia in consulenza sia nelle gestioni (e poi non ti preoccupare …. il buffet per la serata  clienti te lo pago comunque, in qualche modo).

Passiamo alle banche. E qui dobbiamo perlomeno distinguere quelle prevalentemente “tradizionali”, cioè con un business imperniato sull’intermediazione creditizia di vecchio stampo, e quelle più indirizzate al private banking/wealth management (in breve le banche-reti di consulenza).

Per le banche tradizionali, la questione potrebbe interessare solo marginalmente. Con un ritorno dei tassi di interesse a livelli più naturali, dopo un decennio di eresia finanziaria a rendimenti negativi, il business bancario tipico è tornato a macinare utili. Va beh, tolgono gli incentivi….. concentriamoci sulla raccolta diretta e sull’erogazione del credito.

Per le reti di consulenza finanziaria, invece, l’impatto sarebbe più incisivo, non voglio dire devastante. I risultati del mio mini-sondaggio hanno dimostrato che una certa preoccupazione esiste, ma in fondo la maggioranza ritiene di poter scavalcare anche questo ostacolo. Non dimentichiamoci che, ab origine, il management fee non esisteva e gli allora promotori finanziari erano costretti a vivere di commissioni sulla nuova raccolta (spero proprio non si torni a tale situazione).

Ad ogni modo, e come detto, alcune realtà hanno già introdotto forme di consulenza a pagamento, anche se non interamente fee only. Si tratterebbe di trovare la chiave (commerciale) per far passare al cliente la nuova logica di pricing. Ma tutto sommato, sono convinto che molti consulenti intravedono nell’ipotizzato bando agli inducements una opportunità più che un rischio: più flessibilità, maggior trasparenza, meno lamentele dei clienti, miglioramento della propria immagine e del proprio ruolo, potrebbero essere alcuni dei risvolti favorevoli nel nuovo scenario.

Infine, un’ultima riflessione sui consulenti autonomi.

A prima vista dovrebbero essere quelli meno interessati al bando degli inducements. Tali operatori, come noto, operano infatti già oggi, per legge, solo in consulenza fee only. E di tale modello di business ne fanno giustamente un vanto. Anzi, la loro proposizione commerciale si basa sovente proprio sul fatto che la loro consulenza è meno costosa e scevra da conflitti di interesse rispetto a quella proposta dalle banche e dai loro consulenti finanziari.

Osservo quindi che in molti post sui social (e in parte anche nel mio sondaggio), essi si schierano apertamente per l’introduzione del bando alle retrocessioni. E a volte, forse, anche con una forzatura troppo ideologica (tipo paladini dei risparmiatori, diciamo).

Ma a ben pensarci, se venissero meno gli incentivi non verrebbe in parte meno anche la loro raison d’être e il loro vantaggio competitivo? Che differenza ci sarebbe allora tra un consulente abilitato all’offerta fuori sede ed un consulente autonomo? Minor costi e meno conflitti di interesse? A quel punto non più probabilmente. Miglior competenza? Può essere, ma da dimostrare sul campo.

Meditate gente.

 

 

 

[1] Sembra una contraddizione ma non lo è. In parole semplici. La consulenza su base non indipendente permette di ottenere, a certe condizioni, gli incentivi. Ma nulla vieta di proporla sotto forma di consulenza fee only anche se non viene presentata al cliente come consulenza su base indipendente. Se invece il servizio è presentato al cliente come su base indipendente gli incentivi sono vietati.

[2] Si tenga tuttavia presente che le spese correnti indicate dai KID degli ETF non considerano le spese di transazione.