Non pensavo suscitasse così tante reazioni. Ma, evidentemente, il tema è caldo e divisivo. Mi riferisco al sondaggio da me lanciato un paio di settime fa inerente al costo della consulenza.

La domanda mi sembrava tutto sommato chiara, almeno per gli operatori del settore: “Quale dovrebbe essere il costo annuo complessivo (fee consulenza/gestione e o prodotto) massimo da far pagare al cliente?

E le risposte possibili erano:

a)      Meno dell’1%

b)     Da 1% a 1,5%

c)      Da 1,5% a 2%

d)     Da 2% a 3%

Lo scopo del sondaggio era quello di capire quanto gli operatori, sia consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, sia consulenti finanziari autonomi, sia altri soggetti comunque attivi nell’ambito della consulenza finanziaria (private banker dipendenti ad esempio), ritengano che “al massimo” debba pagare un cliente che riceve il servizio di consulenza in materia di investimenti. E nel costo massimo avevo indicato sia il costo della consulenza, ovvero della gestione di portafoglio se al cliente viene proposto tale servizio, sia il costo del prodotto: come a dire, tutto compreso quanto pago? (che poi è quello che emerge dalla rendicontazione MIFID)

Ora, è chiaro a tutti (me compreso) che la tematica non è facilmente sintetizzabile in una domanda secca, e richiederebbe di essere sviluppata in maniera più ampia. Il costo che un cliente paga dipende evidentemente da tanti fattori: profilo di rischio, tipologie di prodotti, intermediario con cui opera ecc..

E posso anche capire alcune considerazioni critiche fatte al sondaggio. Qualcuno ha asserito che la domanda era mal posta perché svilisce il ruolo del consulente; qualcuno ha indicato che non si dovrebbe ragionare in percentuale sulle masse; qualcun altro ha messo in evidenza che si dovrebbe meglio valutare quanto alla fine arriva al consulente finanziario.

Ribadisco tuttavia che il sondaggio non mirava ad argomentare sulle modalità di pagamento della consulenza. Su tale aspetto mi sono già espresso in passato (si veda articolo). E personalmente sono dell’idea che sia giunto il momento di pensare ad un complessivo repricing del servizio: ad esempio permettendo al consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede una maggior flessibilità nel decidere quanto fare pagare (i consulenti autonomi ovviamente già lo fanno per natura); ovvero scollegando il pricing dalle masse in gestione e tarandolo maggiormente sulla quantità effettiva di consulenza erogata anno per anno (se quest’anno ti faccio più consulenza, perché ad esempio ti curo un passaggio generazionale, paghi di più); od ancora prevedendo una componente fissa minima ed una variabile.

Ma al momento, gli schemi di pricing della consulenza sono quelli che sono, e ad essi dobbiamo attenerci. Inutile dire che il prezzo non dovrebbe essere collegato alle masse, visto che nella maggior parte dei casi così avviene.

E, peraltro, come ho indicato in un contro-commento al sondaggio, non è neanche vero che tutte le altre figure di consulenti non considerano le masse, intese in senso lato, quando applicano una parcella: gli avvocati si fanno pagare spesso in relazione al valore di causa; i commercialisti applicano chiaramente costi maggiori alle imprese più grandi (anche perché il volume di lavoro è maggiore); gli agenti immobiliare ottengono un profitto in percentuale sul valore dell’immobile. Gli onorari spettanti al Notaio, per gli atti da lui ricevuti o autenticati, sono graduali, per gli atti di valore determinato o determinabile e fissi, per gli atti di valore indeterminato ed indeterminabile.

Ed allora, ricordiamo che, ad oggi, le principali modalità di pagamento della consulenza ricevuta sono le seguenti.

Nel caso il servizio sia erogato da un consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede, vi sono diverse alternative: quella più tradizionale, ed ancora prevalente, prevede un costo implicito nel prodotto, nel senso che non viene applicata una commissione specifica al cliente ma la banca e il consulente guadagnano attraverso le “famigerate” retrocessioni (sul punto si veda articolo). A volte, tuttavia, viene applicata una commissione on top, cioè una fee per accedere a specifici servizi, oltre ovviamente al costo del prodotto. In altri casi viene proposto, anche dalle reti di consulenza finanziaria, il servizio di consulenza fee only (seppure non indipendente), dove il cliente paga una commissione e la banca/consulente non ricevono retrocessioni, ovvero se le ricevono le rigirano al cliente. Infine, se al cliente viene invece proposto il servizio di gestione e non quello di consulenza, egli paga una commissione di gestione ma la banca e il consulente non ottengono inducements sui prodotti (questi ultimi hanno tuttavia un loro costo).

In tutte queste alternative, ad ogni modo, il costo è per lo più applicato come percentuale sulle masse, salve eventuali scontistiche di varia natura.

Per quanto attiene al consulente finanziario autonomo, la cosa è più semplice. Egli può decidere quanto far pagare e con quali modalità. Anche in questo caso, tuttavia, parte della parcella è solitamente legata alle masse sottoposte a consulenza, sebbene il consulente finanziario autonomo abbia poi flessibilità nel decidere un minimo, un massimo, una componente variabile in base all’assistenza effettivamente erogata. Ovviamente, vi è poi comunque un costo di prodotto: generalmente i consulenti finanziari autonomi creano il portafoglio dei clienti attraverso ETF a basso TER, ma un minimo comunque c’è.

Chiarito quanto sopra, possiamo a questo punto andare a vedere i risultati del sondaggio.

Innanzitutto, i rispondenti: 819 voti. Un numero chiaramente non statisticamente significativo ma nemmeno esiguo. Il post del sondaggio ha avuto 24.485 impressioni, 36 commenti, 8 diffusioni.

Ecco le percentuali di voto

Risposta a) (Meno dell’1%): 22%

Risposta b) (Da 1% a 1,5%): 49%

Risposta c) (Da 1,5% a 2%): 20%

Risposta d) (Da 2% a 3%): 9%

 

Considerazioni sui risultati

Per effettuare alcune considerazioni in merito ai risultati, si tenga presente che il costo totale “massimo” pagato dal cliente dovrebbe remunerare (adeguatamente, altrimenti la consulenza non verrebbe erogata) i seguenti soggetti: la casa di investimento/compagnia di assicurazione che costruisce il prodotto (sia anche un ETF), il distributore (banca o SIM generalmente), il consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede. Nel caso di consulenza autonoma viene meno il distributore. Se il cliente non si affida ad un consulente e fa da solo rimane solo il costo del prodotto.

Inoltre, ed ovviamente, il costo totale pagato dovrebbe essere sostenibile per il cliente stesso. E cioè: dato il profilo di rischio e l’ipotizzabile rendimento atteso, il costo applicato, pur incidendo chiaramente sulla performance netta, non dovrebbe essere tale da impedire una adeguata crescita delle risorse finanziarie del cliente.

In tutto questo si dovrà però tener conto anche del fatto che la consulenza erogata da un consulente finanziario abilitato all’offerta fuori, ovvero da un consulente autonomo, va oggi ben al di là dell’asset allocation. Nel costo totale pagato, se non diversamente scorporato, rientra anche il costo di altri servizi accessori (ma non meno importanti) ottenuti dal cliente: analisi e valutazione del patrimonio complessivo del cliente, implementazione del processo di pianificazione finanziaria, risoluzione di problematiche aziendali tramite forme di credito lombard, soluzioni per il passaggio generazionale e, soprattutto, gestione dell’emotività. NON E’ QUINDI SOLO ED ESCLUSIVAMENTE UNA QUESTIONE DI PERFORMANCE!

Veniamo allora ai risultati.

Meno dell’1% (22% dei voti) sarebbe ottimo per il cliente. E se consideriamo la consulenza autonoma anche fattibile: il consulente autonomo si porta a casa, ammettiamo, uno 0,5%-0,6% e il TER di molti ETF (quelli non troppo complessi) sta comodamente dentro nella differenza a 1%. Improbabile però che un 1% di costo totale sia sufficiente a coprire tutti i costi della filiera nel caso più tradizionale dei consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, a meno di non ripensare il pricing stesso ed applicare eventuali costi aggiuntivi una tantum per i servizi non strettamente finanziari.

Le risposte b) e c) (da 1% a 1,5% e da 1,5% a 2%) cubano insieme il 69%. Pochi si avventurano oltre: solo il 9% indica un costo tra il 2% e il 3% (e, a mio avviso, non sarebbe noioso chiedersi perché. Perché così pochi intendo).

Sembra quindi, in definitiva, che 1,5% sia la cifra (massima) considerata lecita e corretta dagli operatori.

Sostenibile? Direi di sì a grandi linee. Abbiamo già detto che il consulente autonomo se la caverebbe anche con meno.

Per quanto attiene alla filiera tradizionale immaginiamo, ottimisticamente, che la cifra indicata sia divisa per tre equamente: produttore, distributore, consulente finanziario (“MAGARI” direbbe qualche consulente).

Il produttore (le case di investimento) hanno strutture organizzative tutto sommato snelle e flessibili: i TER applicati dalle stesse sugli ETF più semplici dimostrano che qualche decina di basis points di spese correnti sono sufficienti per arrivare a break-even.

Per il distributore banca tutto dipende da come viene organizzato, gestito ed erogato il servizio. Una banca tradizionale che opera tramite dipendenti e sportelli fisici dovrà valutare l’impatto dei costi fissi e quanto la consulenza/risparmio gestito sia preferibile e alternativa alla attività bancaria tipica.

Una banca rete ha sicuramente un ammontare di costi fissi da coprire (tecnologia, marketing, amministrazione, compliance, formazione ecc..) ma, come noto, rende variabili i costi di distribuzione (il consulente è pagato in base a quanto produce). Quanto occorre per arrivare a break-even? Domanda mal posta probabilmente. Meglio sarebbe: quanto voglio avere di utile gli azionisti? Il massimo possibile, ovviamente.

Infine il consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede. Da quanto mi è dato sapere il rendimento medio di portafoglio è oggi inferiore ad un ipotetico 0,5% (un terzo di 1,5%). Tale percentuale sarebbe quindi in linea con l’attuale situazione di mercato. Sufficiente? Sostenibile? Considerando che il lavoro diventa sempre più complesso direi non “disonesta”. Applicata ad esempio a 40.000.000 di euro di portafoglio fa 200.000 euro lordi, a cui devono essere sottratte, oltre alle tasse, i costi di struttura dello stesso consulente (ufficio, segretaria, macchina, ecc…). In linea sicuramente con gli introiti di un buon professionista: ma mica tutti i consulenti hanno quel livello di portafoglio. Una indagine recente indica che il 49% dei consulenti gestisce un patrimonio compreso tra 11 e 30 milioni di euro.

 

E il cliente?

Se ragioniamo esclusivamente in termini finanziari, abbiamo detto che il costo totale pagato dovrebbe essere tale da non impedire una adeguata crescita delle risorse finanziarie del cliente.

E qui entra in gioco il profilo di rischio del cliente (e il suo orizzonte temporale di investimento). Se molto basso, l’asset allocation tenderà ad essere sovraesposta in titoli a reddito fisso sicuri e a scadenza non lunga. Questa composizione di portafoglio potrebbe non essere in grado di sostenere, nel corso del tempo, un 1,5% di costo totale, specie in periodi di tassi bassi come quelli visti fino a poco tempo fa. La crescita del capitale non sarebbe quindi adeguata. E qui, allora, qualche domanda (e qualche risposta) l’industria dovrebbe porsela (darsela).

Senza addentrarci in elucubrazioni sofisticate, ragioniamo invece su un profilo di rischio medio e su un asset allocation 60/40 (60 azioni/40 obbligazioni). A marzo 2023, Vanguard indica un rendimento atteso di questo portafoglio (tipicamente americano) del 6%: tolto 1,5% ci si attesterebbe su un 4,5%. Ipotizziamo una inflazione che rientra nei ranghi e torna al target BCE 2% e siamo al 2,5%. Sufficiente? Sostenibile?

Ditemi la vostra.