Non succede, ma se succede?
Negli Stati Uniti, entrate fiscali inferiori alle attese ad Aprile, unite a spese federali ulteriormente in crescita, hanno avvicinato la data limite in cui il Tesoro non sarà più in grado di far fronte ai propri impegni finanziari a meno che il tetto al debito non venga sospeso o innalzato da parte del Congresso[1].
Il 19 Gennaio 2023, il Governo Federale ha infatti raggiunto il limite autorizzato del debito pubblico, pari a 31.400,00 miliardi di Dollari. La deadline per il raggiungimento di un accordo fra Democratici e Repubblicani è ora prevista per l’inizio del mese di Giugno e si colloca in un clima politico fortemente polarizzato, in cui i Repubblicano chiedono consistenti tagli alla spesa che incontrano l’opposizione dell’attuale amministrazione.
Da questa parte dell’Atlantico, nonostante la conferma del nostro rating a BBB con outlook stabile da parte di S&P Global, Goldman Sachs consiglia agli investitori di andare corti su titoli di stato italiani e lunghi sui Bonos Spagnoli, ritenendo la tenuta degli spread in contrasto con le difficili prospettive macroeconomiche e le politica di quantitative tightening posta in essere dalla BCE.
Insomma, il problema del debito, mai risolto ma passato in secondo piano nella lista delle preoccupazioni di investitori e governanti, alle prese con le conseguenze della Pandemia, con la lotta all’inflazione e con gli effetti del Conflitto Russo-Ucraino, si sta riaffacciando all’orizzonte?
Non possiamo chiaramente prevedere quando ciò avverrà, tuttavia la dinamica crescente del debito governativo globale rende opportuna qualche considerazione.
Il grafico che segue, tratto dall’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, dà conto delle dimensioni attuali e prospettiche del fenomeno, con il rapporto Debito/Pil globale visto crescere fino al 100% nel 2027.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale
Ma è ad oggi possibile individuare soluzioni plausibili ad un problema così generalizzato e complesso?
Con il supporto del grafico che segue, identifichiamo i fattori che hanno storicamente contribuito a determinare il ridimensionamento del rapporto Debito/Pil, per cercare di fare qualche considerazione in chiave prospettica.[2]
Fonte: Fondo Monetario Internazionale
Possiamo notare come crescita del Pil reale e saldo primario abbiano costituito in passato i maggiori driver di riduzione del rapporto debito/Pil nelle economie avanzate. Crescita e inflazione hanno invece contribuito in via prioritaria a ridurre tale rapporto nelle economie emergenti ed, in particolare, nei paesi in via in sviluppo che, come sappiamo, presentano generalmente dinamiche di crescita ma anche tassi d’inflazione più elevati rispetto alle prime.
La generazione di saldi primari come leva di riduzione del rapporto debito/Pil
Con specifico riferimento alle economia avanzate, la generazione di saldi primari (ovvero al netto degli interessi negativi pagati sul debito) quale leva di riduzione del rapporto debito/pil appare oggi alquanto problematica.
Aumentare le tasse e/o tagliare la spesa pubblica costituirebbe infatti un ulteriore fardello sulle spalle dei consumatori, alle prese con la perdita del potere d’acquisto dei loro redditi generata dall’inflazione e con prospettive di crescita dell’economia sempre più orientate al ribasso. Il grafico seguente ben evidenzia tale situazione.
Fonte: www.yardeniresearch.com
L’indice di fiducia dei consumatori Usa, elaborato dal Conference Board, evidenzia consumatori confidenti rispetto alla situazione attuale. Ed infatti, i dati ci dicono che, attualmente, negli Usa, i consumi, soprattutto di servizi, sono robusti e il mercato del lavoro solido.
Tuttavia, la stessa indagine, rileva che le aspettative sullo stato futuro dell’economia sono fortemente orientate al ribasso; ciò è plausibilmente attribuibile al persistere dell’inflazione e, a partite dal mese di Marzo, all’incertezza causata dalla crisi delle banche regionali.
Inoltre, per essere significative nel ridurre il debito, le dimensioni di un eventuale inasprimento di carattere fiscale dovrebbero essere ragguardevoli e avrebbero effetti fortemente recessivi su economie già alle prese con i rialzi dei tassi d’interesse posti in essere dalle Banche Centrali. Si tratterebbe, infatti, di invertire totalmente le tendenza, se non di effettuare un vero e proprio testa coda, rispetto agli stimoli fiscali abbondantemente erogati negli ultimi anni.
Il grafico seguente evidenzia come la spesa primaria e l’indebitamento abbiano registrato, nel corso del 2020, una della più elevate variazioni annuali positive, addirittura a partire dal 1800, tanto che alcuni studiosi hanno paragonato i livello di stimolo a quello erogato nel corso delle due Conflitti Mondiali. [3]
Fondo Monetario Internazionale. Fiscal Monitor. Aprile 2023
Ma la domanda più importante è: questo tipo di misure, qualora implementate, sortirebbe qualche significativo effetto sul rapporto Debito/Pil nel contesto attuale?
Qui le evidenze fornite dal World Economic Outlook, per quanto ragionevolmente intuibili, sono significative.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale
Il grafico riportato evidenzia come il fatto che un paese ponga in essere politiche di consolidamento fiscale (aumento delle tasse e/o riduzione della spesa pubblica) non sia di per se garanzia del ridimensionamento del rapporto debito/Pil; ciò è accaduto in circa la metà dei casi (51%) presi in considerazione dal Fondo Monetario Internazionale.
Affinché ciò avvenga con probabilità significative, tali provvedimenti devono essere adottati in un contesto di crescita interna e globale sostenute e caratterizzate da un basso livello di incertezza economico/finanziaria; più o meno l’opposto rispetto alla situazione attuale. [4]
Il grafico sottostante dà conto, infatti, di prospettive globali di crescita tutt’altro che brillanti, in particolare per quanto riguarda le economie avanzate.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale. (AE’s = advanced economies; EMDEs = emerging and developing countries)
Bentornata inflazione?
Oltre all’indesiderabile impatto negativo sui redditi reali degli individui e all’incertezza creata all’interno del sistema economico, l’inflazione porta con sé importanti effetti redistributivi, in primis fra creditori e debitori.
Essa riduce infatti il valore reale (ovvero depurato dall’inflazione) dei debiti, avvantaggiano i debitori a danno dei creditori, con un effetto tanto più consistente quanto maggiore è la duration del debito (e quindi minore la necessità di rifinanziamento a breve dello stesso) e tanto più elevata la quota dello stesso non indicizzata (per es. all’inflazione o ai tassi d’interesse).
L’Italia, con il 70% circa del debito a tasso fisso e una duration dello stesso di circa sette anni sembrerebbe trovarsi in una buona condizione da questo punto di vista. Bentornata inflazione quindi? Le prime evidenze, di seguito riportate, sembrerebbero fornire una risposta positiva.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale. Global Debt Monitor
Dopo l’abnorme aumento del rapporto Debito/Pil, avvenuto nel corso del 2020, questo si è significativamente ridimensionato nel corso del 2021 (sebbene si trovi ancora molto al di sopra dei livelli pre-Covid), grazie al rimbalzo post-Covid della crescita ma anche all’elevata inflazione.
In altre parole, è stato soprattutto il denominatore della formula, ovvero il Pil nominale, a crescere, anche se un ulteriore contributo è derivato dalla normalizzazione della politica fiscale, dopo gli ingenti aiuti erogati per contrastare gli effetti economici della Pandemia; fattore quest’ultimo che ha frenato l’aumento del debito, posto al numeratore.
Tutto bene quindi?
Non proprio: ad un certo punto, se l’inflazione si radica all’interno del sistema economico e fra gli agenti che vi operano si genera l’aspettativa che essa sia destinata ad essere persistentemente più elevata rispetto al passato, il debito andrà rifinanziato a tassi più elevati, le pensioni e le retribuzioni dei dipendenti pubblici andranno riviste al rialzo e magari tenderanno ad incorporare l’inflazione attesa per il futuro e, più in generale, la spesa pubblica, e quindi il debito, tenderanno a risentire dell’aumento dei prezzi.
In altre parole, come evidenziato nel seguente grafico, solo l’inflazione inattesa (ovvero quella che si è fin qui prodotta) produce effetti duraturi sul rapporto Debito/Pil, con un effetto tanto maggiore quanto maggiore è il valore di quest’ultimo.
Il grafico sottostante ne evidenzia una diminuzione nell’ordine dello 0,6% per ogni punto percentuale di inflazione inattesa nel caso in cui il debito superi il 50% del Pil. In caso di inflazione attesa, invece, gli effetti sul rapporto debito/Pil, soprattutto per i paesi più indebitati, diventano irrilevanti.
Fonte: Fondo Monetario Internazionale
Conclusioni
Che conclusioni possiamo trarre quindi?
La mancanza di alternative plausibili di riduzione del rapporto Debito/Pil, almeno nel breve – medio termine, porterà in futuro gli investitori a riconsiderare il profilo di rischio dell’asset class costituita dal debito governativo, finora ritenuta un porto relativamente sicuro all’interno dei portafogli globali?
Risulta ad oggi difficile pensare che Bund tedeschi e Treasury Usa, ovvero i cosiddetti titoli governativi core, possano perdere il loro ruolo di destinazione prioritaria dei flussi d’investimento globali, soprattutto in corrispondenza del manifestarsi di situazioni di forte volatilità sul mercato. Allo stesso tempo, tuttavia, è arduo ritenere che gli stessi investitori abbiano analoga smania di acquistare i nostri Btp, da tenere sì in portafoglio considerate le generose remunerazioni attuali, ma nell’ambito di un approccio diversificato.
La selezione fra emittenti sarà probabilmente più rigorosa e gli attacchi speculativi nei confronti dei paesi caratterizzati da maggior debito ed economie meno efficienti, probabilmente più frequenti.
Non possiamo quindi escludere che, anche fra le economie avanzate, possano manifestarsi situazioni nelle quali il debito, divenuto insostenibile, necessiti di essere ristrutturato; alcuni ritengono che questo sia uno dei grandi rischi sottovalutati dal mercato.
A parere di chi scrive, tuttavia, nella maggior parte dei casi, il rischio più plausibile è che l’elevato indebitamento attuale si traduca in un enorme trasferimento intergenerazionale di ricchezza dai nostri figli ai cosiddetti Baby Boomers, appesantendo, fin dalla nascita, le spalle di chi verrà.
Le future generazioni sentitamente ringraziano
Reference Shelf
-Fondo Monetario Internazionale. World Economic Outlook, Aprile 2023
https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2023/04/11/world-economic-outlook-april-2023
-Fondo Monetario Internazionale. Fiscal Monitor, Aprile 2023
https://www.imf.org/en/Publications/FM/Issues/2023/04/03/fiscal-monitor-april-2023
-Fondo Monetario Internazionale. Global Debt Monitor, Aprile 2023
https://www.imf.org/-/media/Files/Conferences/2022/12/2022-12-12-global-debt-monitor.ashx
[1] Va notato che il mancato raggiungimento di un accordo non genererebbe automaticamente un default sul debito da parte degli Stati Uniti, come generalmente temuto; le entrate fiscali del Governo Federale sono, infatti, ampiamente sufficienti a ripagare quantomeno la quota di interessi sul debito pubblico. Tuttavia, dovendo gli Usa, a partire dalla data di esaurimento delle misure straordinarie, azzerare il deficit, altre spese federali dovrebbero essere sacrificate, rendendo più probabile il manifestarsi di una recessione e inducendo, con ogni probabilità, una crisi politica.
[2] Non è infatti il valore assoluto dell’indebitamento a rilevare quanto il suo rapporto rispetto al Pil; questa grandezza rappresenta infatti la capacità di un paese di ripagare il debito tramite la ricchezza prodotta al suo interno.
[3] Un’ulteriore questione, che esula dalle finalità di questo articolo ma che sarebbe meritevole di un approfondimento, è se il consolidamento fiscale, al di là della sua rilevanza in ottica di risanamento dei conti pubblici, sarebbe invece opportuno ai fini del contrasto all’inflazione la quale, nella sua componente core, ovvero quella più dipendente dalla domanda di beni e servizi interna all’economia, sta evidenziando un’inaspettata resilienza. Sappiamo, infatti, che la forza di tale domanda è anche una conseguenza degli stimoli fiscali erogati nella lotta agli effetti economici della Pandemia. Aumentare i tassi d’interesse per contrastare un’inflazione generata anche dalla politica fiscale sembra infatti un po’ un controsenso o, come affermò John Cocrane, economista americano specializzato in macroeconomia ed economia finanziaria, nel corso del 2022, crea una situazione simile a quella di un automobilista che con un piede preme l’acceleratore e con l’altra il freno della sua automobile.
[4]Secondo quanto riportato dal Fondo Monetario Internazionale, nelle economie avanzate, l’efficacia delle misure di consolidamento fiscale nel ridurre il rapporto debito/Pil aumenta nella misura in cui tali provvedimenti si sostanziano più in tagli della spesa pubblica che non in aumenti della pressione fiscale.