Il sasso nello stagno lo hanno lanciato Laura Benitez e Loukia Gyftopoulou in un recente articolo apparso su Bloomberg.
Il boom del private credit, ossia tutte quelle forme di credito alternative ai tradizionali prestiti bancari, tra cui possono essere fatti rientrare anche investimenti a titolo di debito nel real estate e nelle infrastrutture, sta contagiando un po’ tutti.
Si era partiti con gli operatori del private equity che, magari parzialmente, si erano spostati sul lato credito. Poi sono arrivati i fondi di private debt, specializzati nel finanziamento alle PMI non quotate. In Italia, si sono aggiunti, sebbene marginalmente, i PIR di prima generazione. Ancor più spinti, potenzialmente, i PIR alternativi e gli ELTIF. Esistenti ma ancora poco presenti i fondi di credito.
Ma ora, tutte le principali case di investimento hanno un piede nel mercato del private credit. Come mostra il grafico sottostante, accanto agli intermediari specializzati troviamo fund managers generalisti.
Fonte: https://www.bloomberg.com/news/articles/2023-06-05/apollo-fidelity-international-and-t-rowe-price-poised-for-private-credit-boom
E a latere, gli investimenti effettuati direttamente dai privati, sia HNWI che retail, attraverso gli strumenti offerti dalle stesse case di investimento oppure tramite le piattaforme di lending crowdfunding.
Tutti vogliosi di fare credito, visto che gli interessi si sono alzati, le commissioni sono a dir poco generose, e le banche, anche a seguito del restringimento dei cordoni della borsa da parte della BCE, iniziano invece a tirare i remi in barca. (si veda la più recente Bank lending survey della BCE).
Un mercato che oggi si aggira intorno a 1,5 trillion di dollari, ma che potrebbe crescere molto nei prossimi anni, nonostante un recente rallentamento nella raccolta.
D’altra parte, lo stesso Capital Market Union action plan 2020 della Commissione Europea, annovera tra i suoi obiettivi (azione 5) quello di: “direct SMEs to alternative providers of funding”.
Il che significa, in termini semplici, aprire ulteriormente alla disintermediazione delle banche, cioè a forme alternative di finanziamento per le PMI.
Ma siamo sicuri che sanno esattamente quello che stanno facendo? Siamo sicuri che fare ciò che fa (o dovrebbe fare) una banca sia così facile e sempre lucrativo?
La gestione del rischio del credito: chi ha il cerino in mano?
In origine, le banche gestivano il rischio di credito all’interno del proprio bilancio.
Secoli di esperienza, di analisi e di modelli per arrivare a capire chi fosse meritevole di essere finanziato. E con non pochi errori nel corso del tempo! Si pensi, semplicemente, alla montagna di sofferenze accumulatasi nei bilanci delle banche italiane alla metà della scorsa decade (Incapability or Bad luck?).
A fronte di tale rischio … il capitale. Requisiti sempre più stringenti (Basilea I, II, III) per assicurare che il tutto stia in piedi.
Poi, a partire dalla fine degli anni ’70 con l’invenzione della securitization e, dagli inizi degli anni ’90 con la diffusione dei credit derivatives, ecco spuntare un modello alternativo: la banca fa credito ma poi cede il rischio a qualcun altro (il mercato in senso lato).
Da “Originate and Hold” a “Originate and Distribute”.
Ora, sarà che ho recentemente rivisto il film “The big short”, ma mi sembra di ricordare che quando il rischio di credito viene, eccessivamente, distribuito tra il pubblico le cose non filano sempre liscio.
Chi analizza, prima, e chi si assume, poi, tale rischio? Qual è il grado di disclosure?
Se gli investimenti del private credit vengono girati più o meno direttamente agli investitori finali, che ripercussioni si potrebbero avere durante una situazione di forte recessione economica in cui, fisiologicamente, i tassi di default aumentano?
Si tratta di investimenti adeguatamente ponderati e diversificati nell’ambito del proprio portafoglio?
In definitiva, chi si sta assumendo il rischio ha capitale sufficiente per permetterselo?
Ditemi la vostra.
Immagine: Una scena del film Regalo di Natale, di Pupi Avati (1986)