Nella foto: Città ideale (fine XV sec.), dipinto di anonimo fiorentino, conservato al Walters Art Museum di Baltimora.
Introduzione
Siamo nel 1994, è da poco caduto il Muro di Berlino, l’Unione Sovietica si è dissolta. L’emisfero occidentale è in piena sbornia globalista e Francis Fukuyama si spinge a decretare la “fine della storia” [1]: il modello del capitalismo liberale e della democrazia occidentale vive il suo apice. È in questo contesto che una sconosciuta sociologa della globalizzazione, l’olandese Saskia Sassen[2], dà alle stampe quello che a tutti gli effetti sarebbe diventato il manifesto che restituiva alle “città globali” un ruolo geo-politico primario.
Detto altrimenti, mentre qualcuno preconizzava un “nuovo secolo americano”, ed i più attenti vi accostavano l’affacciarsi della Cina come nuovo attore globale, così da aversi, in ultima istanza, il rinnovarsi di una contesa imperiale a due con la Cina al posto dell’URSS, la sociologa olandese assegnava alle “global cities” un rinnovato ruolo geopolitico e una posizione primaria e sovranazionale nella competizione globale. Piccole o grandi città che, come attori geopolitici autonomi, avrebbero iniziato a dialogare tra loro, smarcandosi sempre più dagli indirizzi politici degli stati nazione che da secoli le ospitano, diventando a tutti gli effetti realtà indipendenti dagli stati stessi e interdipendenti tra loro.
Nel pensiero della Sassen di inizio anni novanta, un determinato numero di realtà metropolitane a livello mondo, perfettamente interconnesse tra loro all’interno dei mercati finanziari e delle merci, ma anche accomunate da sistemi culturali e sociali di riferimento omogenei, nonché cosmopolite per razza e religione, simili più tra loro che con le altre città delle nazioni di ubicazione, avrebbero iniziato a divenire realtà fattualmente autonome e via via sempre più indipendenti. Queste città, tra cui New York, Londra, Parigi, Hong Kong ecc, si sarebbero ritrovate sempre più all’interno di un modello di riconoscimento reciproco, che non nella dialettica interna ai rispettivi hinterland e periferie, finendo per interconnettersi globalmente e disconnettersi localmente. Alle soglie della fine del primo ventennio del secondo millennio, possiamo affermare che tale profezia si è andata avverandosi.
La Sassen non fu peraltro l’unica a cogliere la realtà del mutamento in atto. Appena un anno dopo la pubblicazione del saggio della studiosa olandese, nel 1995, un altro autore, il giapponese Kenichi Ohmae[3], andò addirittura oltre, arrivando a determinare la oramai prossima fine dello stato nazione, ovvero quell’istituzione che dal 1648, anno della Pace di Westfalia in poi, ha caratterizzato l’ordine mondiale sino ai giorni nostri. Secondo Ohmae le economie di paesi fino a ieri considerati attori minori, spesso ex colonie asiatiche, nel giro di pochi decenni avrebbero assunto un ruolo primario, arrivando a sopravanzare le economie delle nazioni colonizzatrici. Gli esempi citati sono Singapore, la Malesia, l’Indonesia, Hong Kong, Macao ed altri. La convergenza con il pensiero della Sassen è evidente, soprattutto se si considera che tra gli esempi testé citati, ben tre sono città-stato o regioni a forte autonomia.
A chiudere il cerchio è intervenuto nel 2017 lo studioso indiano Parag Khanna[4] parlando apertamente di rinascita della città-stato, intesa nell’accezione classica di Polis. La nuova Polis o “info-stato”, come in maniera ancora più puntuale lo studioso indiano contestualizza la propria idea, è a tutti gli effetti una città efficiente, governata da logiche legate alla ragione, più che alla passione politica, e in cui le scelte sono sempre più spesso demandate a meccanismi di democrazia diretta.
La tesi di Parag Khanna è in qualche modo una tesi classica, che affonda le proprie radici nella ciclicità descritta da Platone. Il filosofo greco aveva individuato nella fase terminale della democrazia, ovvero quell’eccesso di maturazione della dialettica interna caratterizzato dall’emergere di populismi e demagogie, la fase degenerativa del regime democratico, fase prodromica all’avvento della stasis (guerra civile)[5] e quindi della tirannide[6]. Se per Platone l’unico antidoto era l’avvento di una élite di tecnici (i filosofi), animati da un puro e disinteressato spirito di servizio, nella tesi dello scienziato politico indiano, il ruolo che Platone assegna ai filosofi è destinato ai tecnocrati. Non è quindi un caso che nell’attuale modello di Singapore, la tecnocrazia per eccellenza, Parag Khanna veda il modello ideale di info-stato del futuro.
La classifica delle Global Cities: poche luci e molte ombre per l’Italia
Diversi sono a livello mondiale gli indici sintetici che si pongono come obiettivo la misurazione e la classificazione in specifici ranking delle Global Cities. Tra quelli maggiormente attendibili e citati abbiamo il Globalization and World Cities Research Network (GaWC) e il Global Cities Index (GCI) che, pur prendendo ad esempio parametri simili ma mai perfettamente allineati, finiscono nelle rispettive classifiche per premiare sempre le medesime città, seppur con differenze nel ranking proposto (vedi box successivi). Interessante è anche il Global Power Index (GPCI), elaborato dal Institute for Urban Strategies (IUS) della giapponese Mori Memorial Foundation.
I parametri comunemente misurati sono[7]:
- capacità di offrire una varietà di servizi avanzati a livello internazionale (finanziari, assicurativi, immobiliari, bancari, di contabilità e di marketing);
- essere sede di diverse multinazionali;
- essere sede di società finanziarie, di borse valori e di importanti istituzioni finanziarie internazionali;
- essere dominus a livello commerciale ed economico della macro area circostante;
- essere centri di produzione o hub commerciali, con strutture portuali, aeroportuali e di container;
- possedere un notevole potere decisionale o di indirizzo a nazionale e globale;
- essere un centro di innovazione nel mondo degli affari, dell’economia, della cultura e della politica;
- ospitare media e communication center globali;
- avere un’alta percentuale di residenti occupati nel settore dei servizi e dell’informazione;
- avere istituzioni educative di alta qualità, primarie università, centri di ricerca e presenze di studenti e professori internazionali;
- beneficiare di infrastrutture multifunzionali (legali, mediche e di intrattenimento);
- ospitare cittadini caratterizzati da un’elevata diversità di lingue, culture, religioni e ideologie.
GLOBALIZATION AND WORLD CITIES RESEARCH NETWORK (GaWC)
Il GaWC ogni biennio redige una classifica basata su tre cluster, “Alpha”, “Beta” e “Gamma”. Ogni città oltre ad essere assegnata al rispettivo cluster di appartenenza, è ulteriormente categorizzata all’interno del cluster e rappresentata sulla base delle interconnessioni con le città a lei simili. La classifica 2018 vedeva Londra e New York uniche global cities “Alpha ++”, Parigi, Dubai, Singapore e Hong Kong tra le “Alpha +”, Milano tra le “Alpha”, Barcellona tra le “Alpha -” e Roma tra le “Beta +”.
Figura n. 1. Mapping Connectedness of Global Cities: α, β and γ tiers
Fonte: GaWC
GLOBAL CITIES INDEX (GCI)
La classifica di AT Kearney è in buona parte sovrapponibile a quella del GaWC. Milano e Roma non rientrano però nemmeno tra le prime 25 posizioni. Per trovare Roma è necessario scendere rispettivamente alla 34° posizione mentre Milano si posiziona alla 40° posizione. Significativo è il fatto che Roma nel 2012 era ai margini delle top 25 (28° posto nel ranking anno 2012) e a distanza di pochi anni è scivolata in basso, mentre Milano, seppur migliorata di una sola posizione dal 2012, vede comunque un outlook favorevole per i prossimi anni.
Figura n. 2. Global City Index 2018
Fonte: AT Kearney
GLOBAL POWER CITY INDEX (GPCI)
La classifica 2018 dell’indice redatto dalla Fondazione Mori, elaborata con la partecipazione della stessa Saskia Sassen, con un track record che va indietro fino al 2008, tiene conto di sole 44 posizioni e vede Milano, unica italiana, al 31° posto (32° nel ranking 2017). Il GPCI, si propone come obiettivo quello di misurare il “magnetismo” e quindi il potere attrattivo globale su persone, capitali, imprese e conoscenza.
Figura n. 3. Global POWER City Index
Fonte: Institute for Urban Strategies Mori Foundation
Milano vs Roma: i pericoli per l’unità nazionale
Come abbiamo visto, quale che sia la classifica di riferimento, e per posizionamento e per outlook, Roma e Milano sembrano inesorabilmente destinate a giocare la partita globale in modo opposto. Storicamente si tratta di due realtà diverse: una ha da sempre rappresentato il centro del potere politico, l’altra quello del potere economico/produttivo. Nulla di diverso dal solito quindi? Fino ad un certo punto. Il Rapporto 2018 della Camera di Commercio di Milano, Monza, Brianza e Lodi[8] ci offre uno spaccato di una città sempre più ricca e cosmopolita che, se paragonato al dato Italia, vede Milano correre e il resto del Paese procedere a passo di lumaca. Secondo il rapporto “il valore aggiunto (misura della ricchezza prodotta complessivamente a livello territoriale) ha registrato nel 2017 una crescita dell’1,8%, superiore alla dinamica del PIL rilevata in Lombardia e in Italia (rispettivamente +1,7% e +1,5). Ed inoltre il contributo più rilevante e dominante sulla performance complessiva afferisce alla provincia di Milano (+1,8%), che da sola rappresenta circa l’84% della ricchezza prodotta dall’area.
I numeri di Milano, comunque li si leggano, sono in controtendenza nel rapporto con il resto d’Italia: crescita media +1,4%, disoccupazione 6%, reddito disponibile +2,5%, ricchezza media nucleo familiare 32.100 €. Fra tutti gli indicatori quello che più impressiona è il tasso di crescita delle imprese: 1,5% a Milano vs una media Italia dello 0,6% e una media della Lombardia dello 0,8%. Milano non solo non sta più al passo dell’Italia, ma corre quasi tre volte tanto la sua regione. Il centro non dialoga più con la periferia, nemmeno quella più prossima e, del resto, il problema non lo si coglie solo nel rapporto tra Milano e la Lombardia o tra Milano e il resto d’Italia, ma anche tra Milano e il suo hinterland. L’ISTAT nel suo Rapporto Annuale 2018 sulla Situazione del Paese[9] conferma tali elementi di dinamicità.
Ulteriori conferme provengono dal terzo settore e dall’economia/finanza etica. Uno studio apparso su Menabò, periodico dell’associazione romana Etica ed Economia, si è soffermato sul livello di scolarizzazione universitaria nel confronto tra Milano e Roma che, seppur con tendenze simili nel raffronto centro periferia, mostra indici sensibilmente diversi. Secondo l’associazione romana i laureati nelle zone centrali di Milano, Pagano e Magenta, sono il 51,2%, sette volte più di quelli di Quarto Oggiaro (7,6%), mentre a Roma i laureati ai Parioli (49,2%) sono ben otto volte quelli della periferia di Tor Cervara (6%): la loro percentuale supera il 42% nei quartieri benestanti a nord, mentre scende sotto al 10% soprattutto nelle periferie esterne o prossime al GRA a est, e anche nell’hinterland i laureati non superano mai il 25%[10]. Per chi volesse approfondire l’associazione mette a disposizione i dati in un db open data[11].
A chiudere il cerchio interviene l’annuale classifica de Il Sole 24 Ore[12] sulla qualità della vita che, per la prima volta, vede non a caso Milano al primo posto in Italia, con Roma a distanza di ben 20 posizioni.
Secondo Piero Bassetti, fondatore dell’osservatorio politico Globus et Locus, e teorico dei confini mobili della macroregione del Nord (la megalopoli padana o grande Milano), il capoluogo lombardo è sempre più attrattivo e competitivo, è laboratorio di creatività e innovazione. Milano è saldamente la leader del Paese, ma anche testa di punta internazionale, metropoli globale anzi “glocale”[13].
Fatte tali premesse, la domanda che l’apparato politico nazionale dovrebbe porsi, soprattutto mentre discute di ulteriori interventi a favore dell’autonomia è: può un paese come l’Italia permettersi una città, Milano per l’appunto, così forte e in ascesa, sempre più autonoma in termini economici ma anche politici? Il problema però non è tanto Milano che cresce, ma Roma che non riesce ad arrestare il declino nonostante alcuni asset da Global City e un patrimonio culturale ineguagliabile a livello mondiale.
Londra vs Brexiter: la fine dell’unità del regno?
I dati sul referendum per la Brexit li abbiamo visti tutti. Il Regno Unito, in particolare l’Inghilterra, ha votato per il “leave”; Londra e la Scozia invece si sono espresse per il “remain”, seppur con motivazioni diverse. La dinamica del voto scozzese va ovviamente letta nell’ambito della secolare e mai sopita voglia di indipendenza dall’Inghilterra, quello di Londra invece è stato a tutti gli effetti il voto di una Global City con proiezione geopolitica e geoeconomica mondiale.
Figura n. 4. Mappa del voto sulla Brexit
Fonte TGcom24
L’analisi di dettaglio del voto londinese ha svelato ulteriori significati. Su 33 zone in cui è suddivisa Londra, solo in 5 zone ultra periferiche ha vinto il “leave”. Le 5 zone in questione si caratterizzano per non essere ancora state soggette a processi di gentrification[14], ovvero quel processo oramai in atto in tutta Londra che vede l’espulsione della classe operaia dai quartieri più periferici e una parallela rioccupazione da parte di lavoratori dei servizi e dell’industria della finanza, spesso immigrati con livello di istruzione universitaria, che a Londra hanno trovato lavoro stabile.
Già nel 2015, cioè prima del referendum, diversi osservatori rimarcavano che andava montando il risentimento fra Londra e il resto del Regno Unito[15], dinamica alimentata dalla propaganda dell’Ukip che spingeva (e spinge) i cittadini inglesi, non londinesi, spesso lavoratori pendolari, ad incolpare di tutto ciò che non va l’élite metropolitana londinese, edonistica ed edonista che non capisce i bisogni del resto dell’Inghilterra.
La battaglia del “leave” è stata ed è una battaglia per l’unità del regno contro le spinte “separatiste” di Londra. Il problema è che, paradossalmente, la Brexit sta in realtà producendo l’effetto contrario. Il discorso su Londra, tuttavia, non può ridursi alla Brexit, ma va inquadrato nella dinamica storica di una città la cui vocazione globale era presente già in epoca vittoriana. Semmai il punto (come per la dicotomia Milano/Roma), va ad insistere sulla troppa diseguaglianza che va generandosi nel Regno Unito, e in particolar modo in Inghilterra, a causa di una capitale troppo più ricca del resto del paese.
Conclusioni: opportunità e rischi dietro la rinascita della Polis
Mettendo insieme i ragionamenti di Saskia Sassen, di Kenichi Ohmae e Parag Khanna, abbiamo a tutti gli effetti la revisione del paradigma delle relazioni internazionali e di una lettura della globalizzazione eccessivamente omogeneizzante e omologante. Se da un lato è sempre più spinta la tendenza alla interconnessione, dall’altro la rinascita della Polis si porta dietro ulteriori frammentazioni, nonché un nuovo ruolo e una nuova centralità per le economie regionali. L’unica cosa certa è che Fukuyama sbagliava di grosso: la Storia non è finita, semmai ad essere messa in discussione è la centralità degli imperi e l’unità dello stato nazione.
Concludendo, se volessimo vedere le cose dal punto di vista storico-epistemologico, potremmo affermare che il fenomeno della rinascita della centralità della città è evidente. Semmai il problema è di nominalizzazione: più correttamente infatti, riferendoci alle global cities, dovremmo dire che esse assomigliano al “libero comune” due-trecentesco, più che alle Polis greche. In ogni caso, quale che sia il paradigma di riferimento più calzante, possiamo comunque affermare come tali città saranno sempre di più impegnate in uno scontro per l’autonomia, contro il potere centrale degli stati nazione (Milano vs Italia, Londra vs Regno Unito), contro le istituzioni transnazionali (Amburgo a capo di una rinnovata Lega Anseatica vs UE) o della realtà imperiale che le ospita (Hong Kong e il Guangdong vs la Cina), una dinamica molto simile a quella che vide nel trecento Firenze, Milano, Bologna ecc., combattere per l’autonomia contro il feudo, il Papa o e l’Impero.
La competizione/collaborazione, oggi come in futuro, sarà sempre più giocata non tra stati nazione, ma tra città globali legate tra loro dalle supply chain, quelle catene di trasmissione di valore che sempre Parag Khanna chiama connessioni[16]. Le supply chian attraversano e attraverseranno le città più importanti, ovvero quelle capaci di rendersi hub in grado di attrarre capitale umano e finanziario. Chi resterà fuori da questa rete è destinato al lento e inesorabile declino, o peggio ad essere vassallo o colonia.
Ruolo del decisore politico, come sempre, dovrebbe essere quello di coglierne le opportunità dei fenomeni in corso, ma anche di intercettare alcuni segnali deboli, veri e unici indicatori di possibili fratture. Gli stati nazione, Italia, Spagna e Regno Unito in primis, che non sapranno bilanciare il divario di ricchezza, materiale ed intellettuale, sempre più evidente tra le proprie Global Cities (Milano, Barcellona e Londra) e il resto delle città e dei territori della nazione, rischieranno di veder compromessa l’unità nazionale nel giro di pochi decenni.
Reference Shelf
- Ernesto d’Albergo e Daniela De Leo (2018), Disuguaglianze metropolitane: un confronto con Milano e Napoli, in Politiche urbane per Roma: le sfide di una capitale debole, Sapienza Università Editrice.
- Parag Khanna (2016), Connectography: Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi Editore
- Parag Khanna (2019), La rinascita delle città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution, Fazi Editore, 2019
- Saskia Sassen (1991), The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton University Press
- Kenichi Ohmae (1996), The End of the Nation State: The Rise of Regional Economies, Free Press Paperback.
- Francis Fukuyama (1992), La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli
[1] Laurea in studi classici presso la Cornell, perfezionamento a Yale, oggi politologo di fama internazionale professore prima alla Johns Hopkins University di Washington e ora alla Stanford a Palo Alto in California.
[2] Sociologa della globalizzazione ed economista. Dopo aver insegnato sociologia all’Università di Chicago, attualmente insegna alla Columbia University e alla London School of Economics.
[3] Dottorato al MIT, professore alla UCLA Luskin School of Public Affairs, consulente manageriale internazionale e teorico delle organizzazioni.
[4] Laurea in Affari internazionali alla Università di Georgetown e dottorato in relazioni internazionali alla London School of Economics, stratega politico e autore di best seller di fama internazionale.
[5] Sul concetto di stasis, inteso come paradigma di guerra civile nel mondo greco, si vedano gli scritti di Giorgio Agamben.
[6]Le fasi descritte nel pensiero politico di Platone (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide), si collocano perfettamente nel modello della cosiddetta anaciclosi (dal greco: ἀνακύκλωσις, anakýklōsis), ovvero la teoria che, già in Erodoto, descrive l’evoluzione ciclica dei regimi politici.
[7] Fonte Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Global_city
[8] https://www.milomb.camcom.it/documents/10157/37966070/milano-produttiva-2018-parte-1-capitolo-1.pdf/bfeae1fe-6333-406c-87bf-c73915cacccc
[9] https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2018/Rapportoannuale2018.pdf
[10] Disuguaglianze metropolitane: Roma, Milano e Napoli a confronto, di Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi, su Menabò del 7 Marzo 2018. https://www.eticaeconomia.it/disuguaglianze-metropolitane-roma-milano-e-napoli-a-confronto/
[11] http://mapparoma.blogspot.com/p/fonti.html#!/p/fonti.html
[12] http://lab24.ilsole24ore.com/qdv2018/indexT.html
[13]Il futuro della Città Metropolitana nella prospettiva glocale, P. Bassetti, in R. Lodigiani (a cura di), Milano 2018, Rapporto sulla città, Fondazione Ambrosianeum, Franco Angeli, 2019
[14] Fonte Evening Standard del 23 Giugno 2016. https://www.standard.co.uk/news/politics/london-eu-referendum-results-borough-by-borough-breakdown-of-brexit-poll-a3279731.html
[15] The resentment between London and the rest of Britain is turning into a poisonous political debate, Gaby Hinsliff, su The Guardian del 9 Gennaio 2015. https://www.theguardian.com/commentisfree/2015/jan/09/resentment-london-britain-poisonous-debate-mansion-tax
[16] Secondo lo studioso la logica dei confini geografici, naturali o politici, è superata. È finita l’epoca delle divisioni dettate dalla geografia politica ed è iniziata quella dell’interconnessione o connectography, dettata invece da quelle infrastrutture capaci di delineare una nuova “geografia funzionale”.